L’Adorazione dei Magi di Leonardo da Vinci è tornata a riveder la luce. Avvolta per anni dalla superficie scura e brumosa accumulatasi col tempo, è finalmente riapparsa nel proprio splendore grazie ad una paziente, delicata, e complessa opera di restauro compiuto all’Opificio delle Pietre Dure. L’opera è ora esposta al pubblico nella Galleria degli Uffizi e lo sarà fino al 24 settembre. E’ tornata in Galleria dopo che – tra le polemiche – nel novembre del 2011, era stata trasferita al laboratorio della Fortezza da Basso e sottoposta a numerose indagini diagnostiche, poi nell’ottobre 2012, la decisione congiunta di intraprenderne il restauro.
Al di là dell’emozione che si prova davanti ad un capolavoro come questo, realizzato su tavola di legno, che il Genio di Vinci iniziò nel 1481 ma l’anno dopo decise di andarsene da Firenze alla volta di Milano lasciandolo incompiuto, merita attenzione il tema del restauro, poiché oltre a salvare un’opera eccezionale, rende possibile e una più precisa lettura del significato stesso dell’ opera. Una ‘sfida’ come la definisce Eike Schimdt, Direttore degli Uffizi , che i restauratori han dovuto affrontare: infatti, si sono trovati di fronte ad una pittura con diversi livelli di avanzamento: un cielo azzurro appena accennato, aree quasi di solo disegno; figure più costruite e rilevate con colori scuri, immagini sovrapposte ad altre, cancellazioni, zone di ricerca spaziale e volumetrica. Insomma, Leonardo usava la superficie della tavola come un foglio del suo taccuino.
Interpretare un’opera così non era certo facile, ma soprattutto per i restauratori non era una procedura comune confrontarsi con le idee continuamente in divenire di Leonardo, invece che con un lavoro finito: pertanto non è azzardato affermare – dichiara – che “l’operazione intrapresa all’Opificio delle Pietre Dure, sia per la sua delicatezza che per il livello della sfida imposta, non è da meno del restauro del Tondo Doni di Michelangelo o del Cenacolo milanese in Santa Maria delle Grazie, dello stesso Leonardo» . Una sfida resa ancor più difficile dal fatto che il restauratore avrebbe dovuto confrontarsi con un’immagine che non era compiuta nemmeno nella mente dell’artista che la generò, trattandosi di un’opera in divenire che presentava, alle sofisticate indagini condotte, vari tentativi, un coacervo di immagini che si affastellavano davanti agli occhi dell’osservatore durante la pulitura, testi e sottotesti, in un gioco di segni che sono sempre stati tracciati volontariamente sulla tavola e che esprimono l’incessante lavorio mentale dell’autore proprio nel momento stesso del suo operare“.
Oggi, dopo l’opera di restauro, l’apparente mistero del lavoro leonardesco, dato dalla superficie scura, nebulosa, sotto la quale si affollavano figure indistinguibili, intente in gesti ed azioni non decifrabili, sembra svelarsi davanti ai nostri occhi. Vale la pena approfondire quest’aspetto del restauro, condotto, sotto la guida sapiente di Marco Ciatti, Sovrintendente dell’Opificio delle Pietre Dure, coadiuvato da Cecilia Frosinini, da Roberto Bellucci e Patrizia Riitano ( per la superficie pittorica) e da Ciro Castelli, Andrea Santacesaria in collaborazione con Alberto Dimuccio (supporto ligneo) e da coloro che hanno curato documentazione fotografica, campagna diagnostica, climatologica e di conservazione.
E’ attraverso il restauro che appaiono più chiare la struttura dell’opera e il significato che ad essa ha inteso dare l’artista. L’Adorazione dei Magi fu commissionata a Leonardo nel 1481 dai canonici regolari di Sant’Agostino per l’altare maggiore della Chiesa di San Donato in Scopeto, che si trovava su una piccola collina fuori Porta Romana, vicino Firenze ( ora rintracciabile solo in uno degli affreschi di Giorgio Vasari). Pochi mesi dopo però Leonardo se ne andò lasciando il dipinto incompiuto. I monaci ne attesero invano il ritorno, poi dopo 15 anni si decisero a commissionare a Filippino Lippi un’altra pala d’altare sullo stesso tema, attualmente esposta nella sala attigua a quella dell’ Adorazione restaurata.
Lo stesso Vasari dà testimonianza dell’opera di Leonardo affermando che «era in casa d’Amerigo Benci dirimpetto alla loggia dei Peruzzi» con il quale l’artista aveva familiarità, finì in S.Marco e infine approdò agli Uffizi, dopo un periodo nella villa medicea di Castello. Quel lavoro gli fu commissionato, dati i legami stretti del padre, notaio, con i monaci di quella chiesetta.
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