domenica, 26 Marzo
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La Repubblica popolare dell'acciaio

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In tempi di rallentamento economico e lotta all’inquinamento a vedersela peggio sono cementifici e acciaierie, i responsabili numero uno delle nubi grigie che ammantano la Cina. Adeguarsi alle nuove normative ambientali potrebbe comportare un aumento dei costi del 10-20% per le fabbriche inquinanti costrette a controllare scrupolosamente le emissioni di anidride solforosa, polvere sottili, metalli pesanti e diossine. Molte sono già state costrette a chiudere, per altre si profila un futuro a tinte foschissime, ora che Pechino ha dimostrato di voler ripulire il settore eliminando i carrozzoni improduttivi nemici dell’ambiente. Anche a costo di tollerare qualche default, purché controllato.

Il Governo sta colpendo duro sopratutto nelle zone più contaminate, che neanche a dirlo sono proprio i centri dell’industria pesante cinese: in particolare le municipalità di Pechino e Tianjin, nonché la provincia nord-orientale dello Hebei che vanta una produzione annua di acciaio di 70 milioni di tonnellate. Entro il 2017 il Dragone conta di ridurre i livelli di PM2,5 di quest’area del 25%, un obiettivo raggiungibile soltanto perseguendo una massiccia riduzione della dipendenza dal carbone, fonte energetica per eccellenza del Paese e nutriente principale del siderurgico cinese.

Il settore dell’acciaio viene generalmente considerato termometro dello stato di salute dell’economia del Paese. Debole per tutto il periodo delle due guerre, in rapida ascesa con l’avvio delle riforme anni ’80, e letteralmente in volo con l’ingresso del gigante asiatico nella World Trade Organization (WTO). Il recente appetito della Repubblica popolare per il manifatturiero (sopratutto automotive, elettronica di consumo e settore edile) ha ulteriormente surriscaldato un settore che, ancora prima del cambio di Secolo, rischiava di sfuggire di mano, dominato com’era dai colossi di Stato (Baosteel, Angang Steel Company e Tangshan per citarne alcuni), grandi gruppi appartenenti alle autorità centrali e ai poteri locali attraverso quote di partecipazione.

Sebbene arginata con un consistente pacchetto di stimoli, la crisi finanziaria mondiale non ha risparmiato nemmeno Pechino; oggi il mercato dell’acciaio si trova a fronteggiare un crollo verticale dei profitti del 98% rispetto allo scorso anno. I prezzi del minerale ferroso sono precipitati di oltre il 20% quest’anno a causa del surplus delle forniture globali e della frenata della domanda dalla Cina, principale consumatore nonché produttore della lega a livello mondiale (il Dragone contribuisce ai depositi globali per un 47%). Nel 3013 la produzione cinese ha raggiunto la quota record di 779 milioni di tonnellate e, secondo stime di ‘Bloomberg’, per quest’anno l’aumento dovrebbe essere del 3,8% a 809 milioni, superando la domanda che, con un + 3,3%, si attesterebbe sulle 752 milioni di tonnellate.

Dall’inizio dell’anno, a riportare perdite sono state ben l’80% delle acciaierie private e diverse imprese statali; soltanto nella città di Tangshan,170 chilometri a est della capitale, 199 fabbriche si sono viste interrompere le forniture elettriche perché non in regola con gli standard ambientali. E la situazione minaccia di perdurare senza previsione di miglioramenti per i prossimi tre o quattro anni, avverte Xu Zhongbo di Beijing Metal Consulting.

Se quello della sovrapproduzione è un problema già preso in considerazione nel Dodicesimo Piano quinquennale (2011-2015), perseguire una crescita sostenibile è diventata la priorità  della nuova amministrazione presieduta da Xi Jinping. L’obiettivo conclamato è quello di ribilanciare l’economia verso i consumi interni a discapito dell’export e del manifatturiero a basso costo, fino a oggi, vero traino del ‘miracolo cinese’. In occasione del terzo Plenum del Comitato Centrale dello scorso autunno, il Partito ha citato tra i principali fattori di instabilità economica «l’eccessiva allocazione delle risorse» e  «l’intervento irragionevole dei Governi locali». In passato, mentre Pechino tentava di convincere le compagnie a raffreddare il settore, le autorità periferiche hanno continuato a foraggiare la produzione con sussidi ed elettricità a prezzi di favore, temendo la riduzione delle entrate fiscali e i posti di lavoro vacanti che un rallentamento dell’industria avrebbe comportato. Il destino del comparto siderurgico si trova, così, per gran parte nelle mani dei poteri locali.

Simile la situazione per quanto riguarda l‘alluminio. La Cina contribuisce per quasi il 50% della produzione mondiale del metallo leggero, con una produzione giornaliera che nel novembre 2013 era di 65.130 tonnellate, contro le 65.630 tonnellate del resto del pianeta. Ma se le stime parlano di una capacità annua di 27 milioni di tonnellate, secondo analisti citati dal ‘Wall Street Journal’, la Cina ne utilizzerebbe soltanto i tre quarti. Il prezzo dell’alluminio nella Repubblica popolare è sceso dell’8% dall’inizio del 2014, mentre a marzo erano già stati chiusi impianti per un totale di 400.000-500.000 tonnellate di capacità produttiva. D’altronde, qualcuno insinua che il crollo dei prezzi non dispiaccia poi tanto a Pechino, che impegnato in ciclopici progetti infrastrutturali (linee della metro ed edilizia pubblica in primis) trova a sua disposizione commodities low cost.

Come commentava ‘Quartz’ lo scorso anno, niente ci ricorda meglio dell’industria dell’alluminio che quella cinese non è un’economia di mercato. Nell’ultimo lustro, i prezzi del metallo sono stati seriamente indeboliti dalla sovrapproduzione mondiale, a cui il Dragone continua a contribuire massicciamente. Dalla fine degli anni ’80, Pechino non ha badato a spese per perfezionare e rendere competitive le proprie tecniche di produzione, divenute orgoglio nazionale, così come Russia e Stati Uniti si sono fronteggiati a colpi d’investimenti nella ricerca spaziale. Patriottismo a parte, il settore crea occupazione dalle fonderie all’edilizia, passando per le miniere. E fa girare il sistema, giacché per mettere in moto gli alti forni c’è bisogno di carbone, che costituisce il 70% del totale delle riserve energetiche nazionali e continua ad essere una risorsa salvifica per le regioni centro-occidentali, quelle più povere del Paese. Ragione per la quale, tra il 2008 e il 2009, perfino il Governo centrale decise di lanciare un salvagente; vedendo la domanda domestica di alluminio precipitare pericolosamente, Pechino comprò un milione di tonnellate del metallo.

Ma oggi, banditi i sussidi, la tendenza dovrebbe essere quella verso una ristrutturazione dell’industria siderurgica per perseguire quella crescita ‘qualitativa’ -più che ‘quantitativa’- sulla quale pone l’accento da mesi il Premier cinese Li Keqiang. Le cose, tuttavia, sembrerebbero non andare per il verso sperato. Come riporta il sito di giornalismo investigativo China dialogue, spesso invece che adeguarsi alle nuove e più ferree normative ambientali, le compagnie preferiscono chiudere direttamente gli impianti o, nel caso di fabbriche di piccole dimensione, raggrupparsi in agglomerati più grandi. Ovviamente, costa meno. Il punto è che se la qualità dell’aria può vedere un rapido miglioramento una volta sospesa la produzione, la contaminazione del suolo dove le fabbriche hanno operato per anni in maniera selvaggia risulta un male difficilmente curabile, anche nell’eventualità in cui si proceda a bonificare le aree dismesse. L’alto tasso di casi di cancro nella già citata Tangshan ne è la prova.

 

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