Il think tank statunitense Quincy Institute for Responsible Statecraft, con due dei suoi analisti di punta, Trita Parsi, vice Presidente esecutivo dell’istituto, e Matthew Petti, ha affrontato il tema dell‘interventismo in Medio Oriente con uno studio comparativo circa il coinvolgimento di diverse potenze mediorientali nei conflitti armati al di fuori dei loro confini.
L’obiettivo del lavoro è rispondere alla domanda non posta, la cui risposta la si dà, anzi, per scontata negli Stati Uniti e in Occidente in generale: c’è,nella regione, qualche Stato o blocco di Stati particolarmente destabilizzante? oppure tutti gli Stati regionali, amici e nemici degli Stati Uniti, condividono alcune responsabilità per l’instabilità regionale?
L’instabilità in Medio Oriente è stata spesso attribuita a un singolo avversario espansionista degli Stati Uniti, che fosse Libia, Iraq o Iran. Ebbene, sostengono gli autori di ‘No Clean Hands: The Interventions of Middle Eastern Powers, 2010-2020‘, dall’analisi qualitativa e quantitativa dei conflitti della regione negli ultimi 10 anni, appare evidente che diversi Stati sono interventisti all’incirca nella stessa misura, contraddicendo la tesi secondo cui l’instabilità regionale è principalmente causata da un singolo ‘attore maligno‘.
Un pilastro centrale della politica degli Stati Uniti in Medio Oriente dagli anni ’80 è stato il contenimento degli Stati ‘canaglia’ o ‘paria’. Mentre oggi la Repubblica Islamica dell’Iran è la presunta fonte del terrorismo, sotto accusa nel passato sono stati la Libia di Muammar Gheddafi, l’Iraq di Saddam Hussein e la Siria della famiglia Assad. Nel 1986, il Presidente Ronald Reagan definì Gheddafi il ‘cane pazzo del Medio Oriente’, con ‘l’obiettivo di una rivoluzione mondiale’. Alcuni anni dopo, il Segretario di Stato Warren Christopher disse: «Ovunque guardi, trovi la mano malvagia dell’Iran in questa regione». Quasi un decennio dopo, l’arcinemico dell’Iran, l’Iraq, divenne la «fonte di instabilità nella regione più instabile del mondo», come disse l’allora consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice. Mentre l’esercito americano stava facendo a pezzi il regime iracheno, i funzionari dell’Amministrazione Bush hanno iniziato a dare la colpa alla crescente instabilità della Siria, una ‘Nazione canaglia’ che esporta ‘assassini’ e ha bisogno di «pensare dove vogliono che sia il loro posto nel mondo».
La carrellata delle bugie di questa narrativa ricostruita da Parsi e Petti prosegue, poi, con l’attualità, tutta incentrata sull’Iran. Teheran è ancora una volta scelta per il ruolo di ‘cattivo’ della regione. «Il generale Kenneth McKenzie, a capo del Comando centrale, definisce la sua “ricerca dell’egemonia regionale… la più grande fonte di instabilità in tutto il Medio Oriente”. Ex funzionari sono andati oltre, sostenendo di recente, nel giugno 2021, che “il ruolo destabilizzante di Teheran nella regione è il fattore comune” dietro i conflitti dalla Palestina allo Yemen».
La saggezza americana convenzionale, affermano gli analisti, si concentra su di un singolo ‘cattivo’ alla volta, la cui presunta ragion d’essere sarebbe sempre e comunque esportare il caos. Ciò che si omette di dire è che generalmente gli Stati Uniti hanno sostenuto attivamente molti di questi Stati impegnati a proiettare il potere militare fuori dai propri confini. «Spesso i due obiettivi di ridurre gli Stati canaglia e sostenere i partner statunitensi sono stati collegati. Ad esempio, il sostegno degli Stati Uniti all’intervento a guida saudita in Yemen e ad alcuni interventi turchi in Siria era giustificato in termini di riduzione dell’influenza iraniana in quei Paesi. Gli interventi degli stati filo-USA spesso sembrano molto simili a quelli dei cosiddetti regimi rinnegati. Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti hanno fatto ampio uso di delegati e combattenti stranieri. Nel frattempo, Israele e Turchia stanno entrambi reinsediando il territorio conquistato attraverso la guerra, un forzato ridisegnamento dei confini che pochi altri Stati hanno intrapreso nell’ultimo mezzo secolo. In effetti, la ricerca suggerisce che la presenza militare degli Stati Uniti in Medio Oriente in realtà incoraggia i partner statunitensi ad agire in modo più bellicoso. Il coinvolgimento promiscuo di più Stati diversi in ciascuno dei conflitti della regione mina la narrativa secondo cui uno Stato può essere definito la fonte dell’instabilità regionale».
«Sei Stati si sono dimostrati i più capaci di proiettare la potenza armata oltre i propri confini: Iran, Israele, Qatar, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi Uniti. L’Iran è altamente interventista, ma non un’eccezione. Le altre maggiori potenze della regione sono spesso interventiste quanto la Repubblica islamica, e a volte anche di più. In effetti, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia hanno superato l’Iran negli ultimi anni».
«Queste sei potenze si dividono in tre blocchi: l’Iran guida il suo ‘asse della resistenza’, Qatar e Turchia si allineano dietro i movimenti islamici sunniti e gli Emirati Arabi Uniti si allineano strettamente con Israele e l’Arabia Saudita. Allo stesso tempo, ciascuno di essi conduce una politica estera marcatamente indipendente. Tutti questi blocchi si sono impegnati in una serie di interventi nei conflitti locali, dal lancio di attacchi con droni e finanziamento di mercenari all’invio di truppe direttamente nelle zone di conflitto».
Tutti questi sei Stati, proseguono Parsi e Petti, «sono diventati più interventisti durante il decennio successivo alla primavera araba e che i maggiori picchi di intervento si sono verificati durante i periodi di collasso dello Stato. Secondo i punteggi quantitativi, ogni potenza ha chiuso il 2020 con un livello di interventismo più elevato rispetto al 2010, sebbene l’Iran sia stata cumulativamente la potenza più interventista del decennio. Tre di loro -Iran, Emirati Arabi Uniti e Turchia- hanno mostrato livelli relativamente elevati di interventismo, specialmente nella seconda metà del decennio. Queste tre potenze hanno adottato modalità di intervento qualitativamente simili, estendendo il raggio d’azione delle proprie forze con procuratori locali ed eserciti mercenari transnazionali. E spesso hanno reagito piuttosto che provocato gli eventi sul campo».
Non ci sono prove a supporto della narrativa secondo cui l’accordo nucleare del 2015, tra cinque potenze mondiali e l’Iran, abbia causato un aumento dell’interventismo guidato dall’aggressione iraniana: «i dati non forniscono prove a sostegno dell’affermazione, avanzata da alcuni commentatori americani e regionali, che Teheran abbia intensificato i suoi interventi dopo l’accordo nucleare del 2015». «L’intervento iraniano è rimasto coerente dall’inizio della primavera araba in poi, mentre l’interventismo crescente di altre potenze è stato spesso in arene del tutto estranee all’Iran».
«Il livello di coinvolgimento dell’Iran è stato costantemente elevato, mentre i punteggi di interventismo degli Emirati Arabi Uniti, della Turchia e di Israele sono aumentati significativamente nel tempo, specialmente negli ultimi sei anni. Anche il livello di coinvolgimento di Israele è aumentato nel tempo, ma meno rapidamente di quello delle altre potenze. Molti di questi interventi hanno avuto luogo in conflitti successivi o legati alla Primavera araba, anche se alcuni interventi hanno avuto luogo in ambiti non correlati, come la guerra afghana e la guerra israeliana -conflitto palestinese. Tra le maggiori potenze della regione, l’Arabia Saudita e il Qatar hanno avuto livelli di coinvolgimento militare costantemente inferiori. Israele occupa un posto tra i due cluster. Nel complesso, nessuna delle sei potenze è rimasta fuori del post-mischia primavera araba, e tutti hanno partecipato a conflitti diretti e proxy oltre i propri confini».
Le attività interventiste degli Emirati Arabi Uniti e della Turchia «hanno superato quelle dell’Iran negli ultimi anni». «Il più grande divario tra l’Iran e i suoi rivali è stato nel 2014. Le forze iraniane sono state impegnate in combattimento in Iraq e Siria; la Repubblica islamica stava anche sostenendo i delegati in una guerra limitata nel Libano orientale e guerre su vasta scala nello Yemen e nei territori palestinesi. Quell’anno segnò l’apice dell’interventismo iraniano durante il decennio in questione. Sebbene gli interventi dell’Iran in Siria e Yemen abbiano continuato a crescere in raffinatezza e visibilità, l’Iran non ha né ampliato né ridotto la portata geografica delle sue operazioni. Qualsiasi ulteriore movimento nel punteggio dell’interventismo iraniano rifletteva l’intensità fluttuante dei conflitti in cui era coinvolto».
«In altre parole, non esiste un singolo attore interventista, ma un insieme di interventisti in competizione che si sono spinti al fronte nel corso del decennio».
Tutte le maggiori potenze interventiste in Medio Oriente, ad eccezione dell’Iran, hanno ricevuto un ampio sostegno dagli Stati Uniti per decenni. Gli Stati Uniti non hanno appoggiato tutti i loro interventi, ma hanno comunque continuato a proteggere e armare questi Stati. Un terzo delle esportazioni di armi statunitensi dal 2010 al 2020, misurato in valore di indicatore di tendenza, è andato alle principali potenze mediorientali citate in questo studio. L’Arabia Saudita è stato il più grande importatore mondiale di armi americane in questo periodo di tempo. Di queste potenze, la Turchia è l’unico alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente e fu la potenza più interventista alla fine del decennio successivo alla primavera araba. Altre potenze regionali hanno vaste partnership militari con gli Stati Uniti. Gli Emirati Arabi Uniti hanno partecipato alla NATO -guidò coalizioni in Kosovo, Afghanistan e Libia, guadagnandosi il soprannome affettuoso di ‘Piccola Sparta’ tra i funzionari militari statunitensi. I servizi di intelligence statunitensi hanno fornito dati mirati alla coalizione guidata dai sauditi nello Yemen e alle forze turche nel nord dell’Iraq». .
«I dati suggeriscono che il fattore trainante più importante dell’interventismo è l’instabilità regionale. Cioè, l’instabilità regionale sembra guidare gli interventi più spesso di quanto gli interventi causino instabilità». E qui entrano in gioco gli Stati Uniti. La conclusione di Parsi e Petti è drastica. Posto che «Washington è un attore attivo in questi interventi», «gli Stati Uniti non dovrebbero intraprendere azioni che potrebbero peggiorare le cose e, in particolare, evitare politiche che causano il collasso di uno Stato, dato che il collasso dell’autorità statale è un importante motore di interventi e instabilità. In gran parte, questo significa semplicemente resistere alla tentazione di iniziare nuove guerre. Gli Stati Uniti dovrebbero anche stare alla larga dalle politiche che prolungano le guerre civili in corso o da sanzioni su vasta scala che intensificano il processo di collasso dello stato, e così facendo suscitano interventi».
Ma c’è anche un ruolo attivo e positivo che gli USA possono e dovrebbero svolgere secondo gli analisti del Quincy «Data la faida estesa e destabilizzante tra i partner strategici degli Stati Uniti, Washington dovrebbe aiutare a gestire e risolvere le rivalità tra questi partner. Gli Stati Uniti, purtroppo, sono stati troppo passivi al riguardo e non sono riusciti a utilizzare la loro ampia influenza diplomatica per portare i loro amici al tavolo dei negoziati, a scapito della stabilità generale nella regione». Inoltre, gli Stati Uniti «dovrebbero sostenere la diplomazia regionale con un occhio alla creazione di una nuova architettura di sicurezza inclusiva». E su questo ultimo punto Parsi e Petti annotano come «è evidente una promettente esplosione della diplomazia regionale e l’Amministrazione Biden dovrebbe segnalare il suo sostegno a questa tendenza incoraggiando coloro che si impegnano a istituzionalizzare questo dialogo regionale embrionale».