Un recente report della Jammu Kashmir Coalition of Civil Society (JKCSS) ha portato alla luce centinaia di casi di violazione dei diritti umani da parte del governo indiano nel territorio del Kashmir, zona di confine, e profondo conflitto, tra India e Pakistan. Il documento di 80 pagine, intitolato “Structures of Violence: the Indian State in Jammu and Khasmir” , che Khurram Parvez e il suo team hanno redatto in due anni, ha denunciato 333 casi di violazione dei diritti umani e rivelato i nomi di circa 972 responsabili dei crimini, tra cui oltre 400 funzionari dell’esercito, 158 ufficiali di polizia e 189 cecchini del governo. «Questi crimini sono successi con completa consapevolezza degli alti ufficiali governativi, che dovranno essere puniti applicando le leggi internazionali», dice Parvez.
Il Tribunale Internazionale dei diritti umani nel Kashmir di amministrazione indiana (IPTK) e l’Associazione dei familiari di persone scomparse (APDP) hanno collaborato al progetto, portando avanti il loro già da tempo avviato lavoro di analisi del ruolo del governo indiano nei reiterati casi di violenze nel Kashmir, e delle tattiche e della struttura messe in atto per perpetrare questi crimini. Secondo l’IPTK e APDP sono più di 8.000 le persone scomparse, 70.000 i morti, ed innumerevoli gli episodi di violenza sessuale, tortura e sepoltura di massa dai primi anni 90 ad oggi. L’impunità dei crimini è stata facilitata dall’AFSPA (Armed Forces Special Powers Acts), legge che conferisce poteri speciali alle forze armate, approvata nel 1958 ed imposta a tutte le cosiddette ‘aree problematiche’ indiane. L’atto garantisce a tutti gli apparati militari governativi totale impunità, e il potere di arrestare senza un mandato basandosi su semplici sospetti e di sparare o usare altre forme di violenza anche nel caso in cui comportino la morte del sospettato. Le Nazioni Unite hanno condannato l’AFSPA definendola una legge ‘senza alcun posto in una democrazia’, ma questo non ha portato alla sua abolizione.
Il territorio del Kashmir è stato diviso tra India e Pakistan nel 1947 quando le truppe indiane si impossessarono di due terzi della regione, e il Pakistan della rimanente fetta settentrionale. Da allora, i due Paesi hanno combattuto guerre e sono stati protagonisti di aspri conflitti e insorgenze volte a definire lo status politico del territorio. Il Pakistan vorrebbe un referendum per decidere il destino del territorio conteso, come proposto in diverse risoluzioni delle Nazioni Unite, Delhi ribatte affermando che avendo votato nelle elezioni nazionali, i Kashmiri hanno già espresso la propria volontà di appartenere all’India. La popolazione di Jammu e Kashmir di amministrazione indiana è per più del 60% di religione islamica, e questo ne fa l’unico stato indiano a prevalenza musulmana. Dopo le guerre del 1947-48 e del 1965, le tensioni tra i due paesi si inasprirono nuovamente nel 2000 per poi culminare nell’attacco terroristico di Mumbai del 2008, durante il quale vennero uccise 174 persone da parte di cecchini pakistani, secondo l’India islamici proveniente dal gruppo terroristico Lashkar-e-Taiba.
In risposta, i governi indiani che si sono succeduti hanno stanziato negli anni circa 700.000 militari e paramilitari, un soldato ogni 17 civili circa, incaricati di combattere la militanza pakistana nel territorio. «Il numero è totalmente sproporzionato, i potenziali militanti ora sono non più di 150-200, i quali, tra l’altro, potrebbero non essere stati addestrati in Pakistan», dice un alto ufficiale dell’esercito che non ha voluto rivelare la sua identità.