Non c’è nulla di nuovo in quanto sta accedendo in questi giorni in Palestina, sostengono i palestinesi che parlano ai giornalisti, sono le scene di un film già visto. Piuttosto la misura è colma, il “messaggio palestinese è chiaro: ne abbiamo abbastanza della discriminazione israeliana, del razzismo, dell’occupazione, del blocco e delle pratiche di apartheid”, ci diceva ieri Yaser Alashqar, professore aggiunto nel programma MPhil International Peace Studies presso il Trinity College dell’Università di Dublino. E però non è proprio così, qualcosa -non poco, e non trascurabile, anzi- di ‘diverso’ c’è in questo round dell’infinito e cristallizzato conflitto tra Israele e la Palestina, o meglio i palestinesi di Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est, tutti, e tutti insieme, e questo è già la novità per eccellenza di questo round 2021. Qualcosa di diverso c’è sia sul fronte militare che su quello politico.
«Militarmente, Israele è stato colto alla sprovvista dall’espansione della capacità operativa di Hamas di lanciare così tanti razzi contemporaneamente e su obiettivi così distanti», affermano gli analisti di Crisis Group, la presigiosa organizzazione no-profit, specializzata nella prevenzione e analisi dei conflitti. «Il 13 maggio, Hamas ha svelato il suo razzo Ayyash a lungo raggio, sparandone uno all’aeroporto internazionale di Ramon, fuori Eilat, all’estremità del Golfo di Aqaba». Una novità, insieme al resto dell’arsenale di Hamas e Jihad islamica, una varietà di missili terra-terra, alcuni dei quali, spiega ‘BBC‘, «insieme ad altri sistemi impiegati come i missili anticarro guidati Kornet», introdotti di nascosto attraverso i tunnel dalla penisola egiziana del Sinai. Arsenali per la gran parte frutto della «capacità produttiva dinamica e relativamente sofisticata all’interno della stessa Striscia di Gaza. Esperti israeliani ed esterni ritengono che il know-how e l’assistenza iraniani abbiano svolto un ruolo significativo nella costruzione di questo settore» che nell’ultimo periodo si è implementato, in generale, secondo gli esperti, pare «che le armi abbiano una portata maggiore e carichi di esplosivi più grandi».
Altro elemento distintivo di questo round è che lo scontro tra le parti, annota Thomas Newdick, giornalista esperto in difesa che sta seguendo le operazioni militari, si sta espandendo in mare, il conflitto ha ora una ‘dimensione marittima’, «con attacchi missilistici israeliani ora lanciati da navi al largo della costa contro obiettivi di Hamas segnalati nel territorio palestinese autonomo. Allo stesso tempo, i rapporti di entrambe le parti nel conflitto confermano che i militanti di Hamas stanno lanciando razzi contro le piattaforme israeliane di gas naturale nel Mediterraneo, che, a loro volta, sono difese dai sistemi di difesa aerea Iron Dome e da altri mezzi». Newdick richiama anche «una dichiarazione delle Brigate Al Qassam, l’ala armata di Hamas, che affermava di aver preso di mira una ‘piattaforma del gas sionista’ al largo di Gaza». Al centro dell’attenzione il giacimento petrolifero offshore di Tamar, che si trova a circa 50 miglia a ovest del porto israeliano di Haifa, e circa 14 miglia al largo della costa di Ashkelon, che ha subito il peso maggiore degli attacchi missilistici dimassa, e si trova interamente all’interno della zona economica esclusiva di Israele. «Finora, non ci sono prove che Hamas abbia colpito con successo il campo di Tamar, sebbene il gruppo abbia colpito altre infrastrutture energetiche israeliane, colpendo un grande serbatoio di stoccaggio di petrolio ad Ashkelon con un razzo, provocando un grande incendio. Non è chiaro se quell’incidente abbia coinvolto il deliberato obiettivo del serbatoio di stoccaggio, o se sia stato semplicemente il risultato di un bombardamento da parte di razzi non guidati».
«Altre potenziali armi a disposizione dei militanti per attaccare le piattaforme petrolifere includono ‘sottomarini autonomi‘, molti dei quali l’IDF afferma di aver già distrutto. Poco si sa di queste armi, descritte anche come ordigni esplosivi improvvisati subacquei telecomandati, o RC-UWEID. Possono anche essere navi di superficie senza equipaggio di basso profilo o semisommergibili e, secondo quanto riferito, trasportano una testata del peso fino a 66 libbre».
«Nel complesso, il rischio per le infrastrutture energetiche offshore israeliane dai razzi lanciati da Hamas è limitato; dopotutto, le piattaforme presentano bersagli fisicamente piccoli e si trovano a diverse miglia dalla costa. I droni suicidi, d’altra parte, potrebbero essere una minaccia molto più pericolosa». Per quanto riguarda i ‘sottomarini autonomi’ a disposizione di Hamas, «non ci sono ancora prove che siano stati dispiegati, ma sono chiaramente una minaccia che l’IDF prende sul serio, sulla base dei suoi sforzi per sradicarli. La natura asimmetrica del suo nemico implica che Israele debba investire risorse considerevoli per sconfiggere una serie di minacce che sono frequentemente ben nascoste». Questo diventerà solo più pronunciato col passare del tempo, secondo tutte le indicazioni».
Crisis Group sottolinea poiche «Hamas ha emesso un elenco di richieste, che, a differenza delle passate escalation, si sono concentrate su Gerusalemme. Ha chiarito che non prenderà in considerazione un cessate il fuoco fino a quando Israele non cesserà le sue espulsioni a Sheikh Jarrah ed evacuerà le sue forze dalla moschea di Al-Aqsa, consentendo la libertà di accesso e di culto alla moschea. Al di là di queste due richieste centrali, Hamas ha anche chiesto il rilascio di tutti i prigionieri detenuti in questi recenti eventi e l’acquiescenza israeliana alle elezioni legislative palestinesi, anche a Gerusalemme est. A differenza delle precedenti guerre a Gaza, Hamas ha deliberatamente messo da parte la questione di Gaza e ha concentrato le sue richieste esclusivamente su Gerusalemme in una chiara dimostrazione della sua intenzione di rappresentarsi come il difensore di tutti i palestinesi nel terreno diviso della Palestina» .
Politicamente, secondo Crisis Group, «questa serie di eventi è stata un campanello d’allarme per coloro che in Israele speravano che il conflitto fosse ‘contenibile’ o addirittura in gran parte terminato -che avrebbero potuto ignorare la questione palestinese e fingere che fosse stata in gran parte risolta a favore di Israele. Questo senso si è approfondito negli ultimi due anni con gli accordi di Abraham, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e importanti Stati arabi del Golfo e il continuo aumento dell’economia e delle condizioni di vita israeliane. I leader israeliani hanno anche visto Hamas uscire dai suoi confini di Gaza usando la sua escalation con Israele per tentare di negoziare concessioni su Gerusalemme, non solo la revoca del blocco su Gaza, come aveva fatto in passato. In tal modo, Hamas sembra usurpare la leadership del movimento nazionale palestinese dal presidente Abbas e dall’Autorità palestinese guidata da Fatah.
Mentre le guerre del 2006, 2008-2009, 2012 e 2014 erano tutte incentrate su Gaza, il nuovo round di combattimenti, anche a Gaza, ha riaffermato la centralità di Gerusalemme nel conflitto. L’evoluzione della situazione a Gerusalemme Est–all’Holy Esplanade e in quartieri come Sheikh Jarrah- è arrivata a incarnare gli elementi fondamentali alla base del più ampio conflitto israelo-palestinese e le esperienze dei palestinesi che lo vivono. Gli ultimi alterchi a Gerusalemme li hanno portati al culmine e hanno trovato risonanza comune in tutte le comunità geograficamente disperse della Palestina, inclusa la diaspora.
Con una frequenza crescente, i palestinesi in queste proteste hanno lanciato appelli ad Hamas -movimento di liberazione e resistenza nazionale islamico, come si definisce- a intervenire e fare qualcosa, posizionando chiaramente il movimento agli occhi dei palestinesi come un baluardo contro l’aggressione israeliana in contrasto con Fatah nel Cisgiordania. In queste stesse proteste, i palestinesi hanno lanciato insulti ad Mahmud Abbas e all’Autorità Palestinese per la loro inefficacia nel difendere Gerusalemme, in particolare dopo che avevano usato la città come pretesto per annullare le elezioni legislative palestinesi. In effetti, nel corso degli eventi che si sono verificati nell’ultimo mese, l’Autorità Palestinese è stata costantemente derisa. A loro volta, l’Autorità Palestinese e Fatah sono rimasti relativamente in silenzio su questi sviluppi, mentre hanno anche represso le proteste in Cisgiordania che sono esplose in solidarietà con i palestinesi a Gerusalemme est».
Nè si può non tener conto della novità rappresentata dagli scontri sempre più preoccupanti tra ebrei e palestinesi in molte città di tutto Israele. La novitàquesta volta, che avrà conseguenze a lungo termine, afferma Crisis Group, «è l’agitazione popolare dei palestinesi in tutta Israele-Palestina, come se i confini -e in particolare la Linea Verde, che segna la linea dell’armistizio dopo la guerra del 1948 e che oggi separa Israele dalla Cisgiordania- fossero svaniti. Le proteste si sono diffuse da Ramle e Al-Lid a Jaffa, Haifa, Umm al-Fahm, Nazareth, Rahat, Hebron, Nablus, Tarshiha, Bethlehem, Tulkarem, Jenin e il campo profughi di Qalandia in una sorta di movimento pan-palestinese non organizzato. La mobilitazione è avvenuta nonostante decenni di tentativi israeliani di cantonizzazione territoriale che avevano in effetti tagliato fuori Gerusalemme Est dal suo hinterland della Cisgiordania, di cui è una parte intrinseca, nei due decenni e mezzo dalla firma degli accordi di Oslo del 1993».
Tutti questi elementi nell’insieme fanno dire a Crisis Group che «un cessate il fuoco non ristabilirà la calma, anche se potrebbe alleviare il peggio della violenza». A breve termine, Hamas e Israele potrebbero raggiungere un accordo di cessate il fuoco e le tensioni potrebbero ridursi a Gerusalemme e in altri luoghi, affermava ieri Alashqar, «ma le cause profonde del problema rimarranno. Presto potrebbe anche tornare un nuovo ciclo di escalation. Devono esserci soluzioni politiche sostenibili e un impegno inclusivo con tutte le parti, compreso Hamas. I principi dei diritti nazionali, della giustizia e dell’autodeterminazione devono essere rispettati e affrontati in ogni efficace processo di risoluzione dei conflitti». E di mano in mano che passano i giorni e il conflitto si intensifica, ugualmente pare crescere la consapevolezza che, appunto, un cessate il fuoco non solo non può più interessare ai palestinesi, ma che non può più essere nemmeno una finzione sostenibile da parte della comunità internazionale, per non parlare dello stesso Israele. In questo round non ci sono più perdenti predestinati, o almeno perdenti non sono più solo i palestinesi, «sebbene la sopravvivenza di Israele non sia in discussione qui, il suo futuro potrebbe essere seriamente influenzato dal modo in cui i suoi leader gestiscono crisi come questa», afferma Anthony Billingsley, docente senior, Scuola di scienze sociali, dell’Università del New South Wales.