La violenza spettacolare dello Stato islamico (Is/Daesh) continua a imporsi all’attenzione di una Comunità internazionale distratta e incerta sulla linea strategica da adottare. Lo si è visto recentemente in Libia, il 15 agosto, dove la frangia locale dello Stato islamico ha dato sfoggio della propria crudele volontà uccidendo, decapitando e crocifiggendo dodici dei combattenti fedeli al Governo di Tripoli, impegnati a contrastarne l’avanzata; le immagini, estremamente efficaci ed elaborate a fini propagandistici e di terrore, sono state trasmesse via web dagli stessi jihadisti e hanno ottenuto un’importante attenzione mass-mediatica (che poi è il fine ultimo ricercato dai ‘signori del terrore’).
Qual è la situazione attuale?
Da una parte abbiamo Tripoli e Bengasi controllate dalla coalizione ‘Alba Libica‘ composta dalle forze jihadiste di Ansar Al-Sharia e dalle milizie di Misurata.
Dall’altra, c’è il Governo (e il Parlamento) di Tobruk -riconosciuto internazionalmente- sostenuto dalle forze laiche, dalle milizie dello Zintan e dal generale Khalifa Haftar.
Infine, il terzo attore forte: le milizie fondamentaliste collegate al califfato islamico dell’ISIS/Daesh. Una presenza, benché in franchising, che è in grado di destabilizzare il già precario scenario libico.
Quanto sta accadendo è il risultato di un’espansione jihadista (a poche centinaia di chilometri dall’Italia) che va a sostituirsi ad altri gruppi jihadisti legati ad al-Qaida attraverso un’efficace attività di reclutamento tra le popolazioni locali. Una situazione che si palesa sempre più come minaccia diretta all’Italia e all’Europa, anche a causa del pericolo rappresentato dal ‘jihadismo di ritorno‘ che potrebbe interessare sia l’Europa, sia i Paesi del nord Africa, in primis la Tunisia a rischio di destabilizzazione interna.
Nel complesso, è evidente – sebbene sottovalutato – quanto la situazione stia progressivamente degenerando.
Alla ricerca di una strategia comune?
In linea con il nuovo approccio concettuale al contrasto della minaccia rappresentata dal ‘nuovo terrorismo insurrezionale’ (New Insurrectional Terrorism – NIT), introdotto e descritto in anteprima dallo scrivente per ‘L’Indro‘, è bene porre in evidenza quali siano i pericoli derivanti dall’assenza di una condivisa ed efficace strategia di contenimento e contrasto e quali le opportunità di un’azione responsabile. Azione responsabile che deve essere basata su una capacità di comprensione delle dinamiche di un fenomeno complesso – quale è l’IS/Daesh e, più in generale, il citato ‘nuovo terrorismo insurrezionale’ di cui quest’ultimo è parte – che viene affrontato agendo sui sintomi anziché sulle vere cause.
La minaccia del ‘nuovo terrorismo insurrezionale’ jihadista che, diffondendosi dal Medio Oriente verso il Nord Africa, ha investito anche la Libia (dopo la Siria e l’Iraq), rischia ora di espandersi in maniera significativa agli Stati limitrofi (Algeria, Tunisia, Mauritania, Marocco, ecc.), deve preoccupare anche l’Europa, e con essa l’Italia, sia sul piano della sicurezza fisica – interna ai confini nazionali – sia su quello degli interessi energetici ed economici: minacce che sono conseguenza dell’avanzata neo-jihadista dell’IS in combinazione con le spinte autonomiste locali e in stretta correlazione con i gruppi di opposizione armata locali e regionali.
L’Italia ha dunque la responsabilità e la necessità di difendersi da una potenziale offensiva jihadista; ma a ciò si unisce un altro elemento di vitale importanza per il nostro Paese: la garanzia di accesso alle risorse energetiche di un nord Africa sempre più in balia di dinamiche destabilizzanti; ciò impone un indirizzo politico-strategico volto al rafforzamento della cooperazione euro-mediterranea.
‘Contrasto del jihadismo‘ e ‘sicurezza energetica‘ sono fattori dinamici tra di loro collegati; si comprende, in tal senso, l’importanza strategica di un Mediterraneo sicuro.
In tale quadro, un importante punto di forza, funzionale a una politica strategica coerente e al contrasto della minaccia jihadista proveniente da sud è rappresentato dalla collocazione geografica dell’Italia. Una posizione vantaggiosa solamente se valorizzata attraverso un approccio proattivo che sappia perseguire una linea politico-strategica e prevedere un coerente sviluppo sui piani politico-militare, tecnologico, metodologico e che sappia valorizzare le proprie risorse umane e materiali. Una condizione geografica che, al contrario, diviene svantaggiosa nel caso di approccio politico passivo o eccessivamente ‘prudente’.
Un intervento militare in Libia potrebbe fermare le violenze (e tutelare l’interesse nazionale italiano)?
L’ipotesi di intervento militare non è remota né improbabile. Ma la domanda è se la Comunità internazionale, e con essa l’Europa, abbia la volontà – e la capacità – di gestire efficacemente un altro intervento militare in Libia, dopo l’infelice esperienza dell’Operation Unified Protector del 2011 che portò alla caduta del regime di Muammar Gheddafi e al conseguente caos di cui siamo testimoni noi oggi.
Molti indicatori confermerebbero tale volontà: dall’opportunità di proteggere le risorse energetiche, e le relative infrastrutture, alla necessità di porre sotto controllo un flusso migratorio senza precedenti verso l’Europa (attraverso la Libia, il Mediterraneo e l’Italia), al contenimento di un fenomeno violento che rischia di rendere insicura l’intera area mediterranea.
Sul fronte della capacità, Italia, Regno Unito, Francia, Germania, Spagna e Stati Uniti – secondo quanto riportato recentemente anche dal ‘The Times‘ – sarebbero pronti per un impiego delle proprie Forze Armate nel contesto di un’ampia operazione militare finalizzata a sostenere un governo libico di unità nazionale, la cui costituzione potrebbe essere il risultato degli sforzi del rappresentante speciale dell’ONU, Berardino Leon, impegnato nel dialogo negoziale con le due principali parti in causa, i governi di Tobruk (riconosciuto dalla Comunità internazionale) e quello di Tripoli.
Un’ipotesi di impegno militare, il cui avvio potrebbe avvenire in tempi relativamente brevi (forse già a settembre), che non escluderebbe un contemporaneo impegno delle forze di sicurezza libiche e azioni di bombardamento aereo da parte di Francia e Stati Uniti. Forze speciali britanniche, francesi, statunitensi e italiane sono già presenti da tempo in area di operazioni – e altre in procinto di esservi schierate -, e ulteriori unità convenzionali sarebbero pronte e in attesa del via formale all’operazione.
Ma fin quando un Governo libico di unità nazionale non sarà formalmente costituito – e ciò presuppone l’accordo tra le due parti attraverso l’impegno dell’ONU – nessun intervento militare internazionale diretto e di assistenza potrà avere ufficialmente inizio.
E nessun intervento militare, se non inserito in un ampio processo politico, potrà avere successo senza una condivisa strategia di contrasto che veda impegnati tutti gli attori – interni ed esterni alla Libia – nel processo di risoluzione di quelle destabilizzanti conflittualità libiche che, se da un lato vedono contrapporsi due fazioni disomogenee ma parzialmente definite e geograficamente identificabili, dall’altro lato sono alimentate da spinte ideologiche e fondamentaliste strettamente collegate al nuovo terrorismo e alla criminalità transnazionali: il fenomeno ‘glocale’ di IS&Co., la cui natura generale si alimenta di conflittualità locali, tribali, interessi economici, spinte ideologiche, giustificazioni religiose ed esaltazione della violenza (terrorismo), ma la cui natura politica fonda le radici nel Califfato, quella realtà statale insurrezionale che detiene il monopolio della forza nell’area del Syraq (area a cavallo tra Siria e Iraq) e le cui influenza e capacità attrattiva si impongono dal nord Africa al subcontinente indiano.