Gli ultimi dati mostrano che la crescita del PIL cinese è scesa al 6,2% su base annua nel secondo trimestre, la peggiore performance in quasi tre decenni. Nel primo trimestre la crescita si era attestata al 6,4%.
Un dato che certo problemi alle ambizioni cinesi li crea, ma, per assurdo, secondo alcuni analisti finanziari, un aiuto potrebbe venire niente meno che dalla guerra commerciale con gli USA -alla base, per altro, del rischio di una nuova recessione mondiale, timori europei in primis.
Se è vero che la guerra commerciale USA-Cina lascerà entrambi i Paesi in condizioni peggiori nei prossimi anni, e a guadagnarci saranno tutti gli altri Paesi che beneficiano di cambiamenti nei mercati e nei prezzi mondiali, è anche vero che le industrie statunitensi e cinesi si adegueranno, deviando il commercio verso altri mercati. Il risultato di questa nuova situazione, secondo gli analisti del Peterson Institute for International Economics (PIIE), è che: mentre l’agricoltura in particolare e la produzione statunitense in generale perderanno, la manifattura cinese guadagnerà, espandendo la produzione e il commercio. Le esportazioni statunitensi verso la Cina e le esportazioni totali statunitensi diminuiranno. La diversificazione delle esportazioni statunitensi verso altri mercati compenserà solo parzialmente il declino generale. La Cina, invece, avrà più successo nel dirottare le esportazioni verso altri mercati, aumentando le esportazioni totali. La Cina ha già tagliato le sue tariffe sulle importazioni da tutti i Paesi eccetto USA, probabilmente proprio ipotizzando le stesse conclusioni degli analisti PIIE, che hanno lavorato su più scenari, e in tutti i casi l’ipotesi è un piccolo miglioramento del PIL cinese e un leggero calo del PIL statunitense.
«Le condizioni economiche sono ancora gravi, sia in patria che all’estero, la crescita economica globale sta rallentando, le instabilità esterni e le incertezze sono in aumento, lo sviluppo squilibrato è ancora acuto, e l’economia è sotto nuova pressione al ribasso», ha detto Mao Shengyong, portavoce dell’ufficio nazionale di statistica cinese, in una conferenza stampa, commentando i dati del PIL.
Il resto del mondo sta ignorando le politiche commerciali degli Stati Uniti e sta procedendo con gli accordi di libero scambio all’interno della struttura dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), e questo di certo sarà di aiuto per la Cina.
Secondo alcuni osservatori, però, proprio il rallentamento al 6,2% del PIL starebbe a dimostrare che il ‘modello di crescita cinese guidato dallo Stato sta finendo il gas’, come sostiene ‘The Wall Street Journal’. Una recessione o una crisi potrebbero non essere imminenti», «il 6,2 è ancora abbastanza buono per un Paese a reddito medio con un prodotto interno lordo pro-capite da $ 14.000 a $ 18.000 all’anno», è uno dei tassi di crescita più invidiabili al mondo, «ma le implicazioni a lungo termine sono altrettanto gravi».
Innanzitutto, la Cina non è all’altezza delle economie che cerca di emulare: Taiwan, Corea del Sud e Giappone hanno goduto di una crescita superveloce per diversi decenni in simili fasi di sviluppo. La Cina sembra rallentare prima degli altri. La spiegazione, secondo il ‘The Wall Street Journal’, è che «il suo settore statale distorce gli investimenti e deprime la produttività». Potenzialmente la Cina potrebbe essere in grado di sostenere la sua rapida crescita ancora a lungo grazie al momento molto favorevole per la produzione tecnologica. La previsione degli economisti è che, però, la Cina non ce la faccia a mantenere un ritmo degno delle sue potenzialità. «Molto difficile sostenere tassi di crescita superiori al 4% nell’attuale contesto politico», afferma Loren Brandt, esperto di crescita cinese all’Università di Toronto al ‘The Wall Street Journal’.
Tra le cause delle difficoltà cinesi: la popolazione in età lavorativa ha smesso di crescere; il grande spostamento del lavoro dalle aree rurali alle fabbriche urbane è in gran parte completo; le difficoltà che le imprese private ancora incontrano nel Paese, causa il controllo detenuto dallo Stato, non incoraggia, anzi, gli investimenti; la stragrande maggioranza della crescita economica della Cina è guidata dalla crescita dei consumi di servizi -i consumi hanno contribuito per il 76% e i servizi per il 60% della crescita del PIL-, sospinta dalla crescita delle spese da parte dei consumatori e negli ultimi mesi le vendite sono diminuite drasticamente (in particolare auto e smartphone) e alcune grandi aziende stanno tagliando di posti di lavoro.
Tuttavia, secondo le previsioni, il consumo cinese dovrebbe crescere di circa $ 6 trilioni da oggi fino al 2030. Questa enorme somma equivale alla crescita dei consumi combinati prevista negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale nello stesso periodo, il doppio di quello dell’India e delle economie dell’ASEAN insieme. Il rallentamento di adesso, secondo McKinsey Global Institute, è causato dai cambiamenti dei modelli di consumo, in una società in cui la fascia medio-alta del Paese è in crescita. Ma il problema di fondo è il peso dello Stato nell’economia non più sopportabile dallo Stato stesso.
Altro fattore che ha determinato il rallentamento dell’economia è la stretta creditizia -dopo dieci anni di incentivi e deleveraging, ai quali ha dato il via la grande crisi, e una serie di misure di stimolo e di liberalizzazione finanziaria, tutto ciò ha determinato una ‘pompa di credito’ che ha creato bolle speculative nell’economia sostenute attraverso l’eccesso di liquidità- che ha iniziato a farsi sentire, in particolare tra le piccole imprese nel settore privato. Poiché l’economia cinese è sempre più dipendente dai consumi e dai servizi, una compressione delle aziende si riflette sui consumi e sulla crescita generale.
Il rallentamento della Cina, ancora lontana dalla crisi, potrebbe essere l’inizio di una nuova recessione a livello mondiale, e tra le prime vittime l’Europa. E questo sarebbe un grave problema per la Cina. Il Presidente della BCE, Mario Draghi, continua sostenere che le probabilità di una recessione dell’Eurozona nel breve termine rimangono ‘basse’, alcuni economisti non sono della stessa opinione. Di un «rischio considerevole di recessione in Europa entro la fine di quest’anno e all’inizio del prossimo anno», parla, tra gli altri, Mohamed El-Erian, economista, primo consigliere economico del Gruppo Allianz, la UE «ha ‘tra il 50 e il 60 per cento’ possibilità di entrare in recessione quest’anno o poco dopo», ha dichiarato ai media asiatici.
Un grande guaio la ‘consistente’ possibilità di una recessione nell’Unione europea, un rischio maggiore per l’economia cinese rispetto alla guerra commerciale USA-Cina in corso, secondo El-Erian. L’UE, infatti, è il principale partner commerciale della Cina, la terza a livello mondiale per servizi finanziari, la sua recessione significherebbe domanda più debole per le esportazioni cinesi uno dei tanti gravi ostacoli cui devono far fronte i politici di Pechino, che sono stati costretti a mettere in atto una serie di misure di stimolo e hanno sospeso il programma di riforme economiche.
Il successo dello sforzo di riforma della Cina, e dunque la ripresa del PIL evitando la ‘tempesta’ della recessione, dipenderà in buona parte dalle prestazioni future dell’economia globale, Europa in testa -i cui destini a sua volta sono legati all’andamento del resto del mondo, non ultimo USA.
Sarà possibile evitare la tempesta? C’è da ritenere che la Cina non farà mancare i suoi sforzi alla mucca Europa, più in dubbio -molto- gli sforzi americani, che, anzi, sembrano andare in senso contrario, un elemento positivo perché l’Europa aiuti intanto se stessa, secondo PIIE, è nel nuovo gruppo dirigente UE, definito «capace e pragmatico, impegnato a portare avanti i processi di riforma economica del continente», la revisione delle istituzioni europee e il sostegno alle istituzioni multilaterali globali a partire da quelle che regolano il commercio internazionale.