venerdì, 31 Marzo
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Immigrazione: verso Dublino IV

Il ‘Sistema Dublino’ è, oggi, sinonimo di criticità nell’agenda politica migratoria italiana – e non solo. A livello europeo, negli ultimi anni, le limitazioni in esso contenute alla mobilità delle persone provenienti da Paesi terzi e richiedenti una forma di protezione internazionale si sono riverberate sugli Stati come Italia e Grecia, che per la loro geografia rappresentano, a Sud, la ‘frontiera esterna’ del continente. Nella crisi gestionale degli ultimi 2 anni, il vuoto di funzione e le contraddizioni generate dall’operatività del Sistema Dublino nello Spazio Schengen, non hanno ricevuto i correttivi auspicato dal sistema di ricollocazione per quote dei richiedenti protezione, basato su criteri restrittivi come il PIL, la popolazione, e la percentuale di richiedenti presente negli Stati ‘recettori’. Oltre a ciò, il sistema non ha funzionato per ragioni politiche dipendenti dalla ferma opposizione di alcuni Paesi, come i ‘4’ del Gruppo sovranista di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Polonia), schierato contro Bruxelles.

Intanto, è stata modificata dal Parlamento europeo la proposta di riforma del Regolamento di Dublino: il c.d. ‘Dublino IV’, la cui approvazione è prevista per il giugno di quest’anno, promette una svolta in merito ai criteri soggiacenti all’individuazione dello Stato che esaminerà le nuove richieste di asilo. Dal «primo arrivo» ai «significativi legami familiari»: lo scorso 19 ottobre, la Commissione ‘Libertà civili, Giustizia e Affari interni’, ricevendo la successiva conferma dell’assemblea plenaria (il 16 novembre), ha spostato l’attenzione sui nessi sociali esistenti tra i richiedenti e il nuovo possibile contesto di vita: l’esistenza di legami familiari (allargati a figli adulti in carico ai genitori, fratelli e sorelle), l’avere intrapreso in un Paese un percorso di studi o anche l’avervi vissuto.  Fermi restando i rischi inerenti alla mobilità dei minori non accompagnati, il sistema comune di asilo subirebbe una flessione, anche in mancanza dei legami sopra accennati, attraverso un metodo di ripartizione fisso operante dopo un vaglio accelerato di ammissibilità della domanda e i controlli di sicurezza.

La competenza dello Stato a esaminare le richieste di asilo non sarebbe, così unicamente determinata dalla geografia. Tuttavia, non mancano le resistenze dei governi  nazionali e un rischio di vanificazione della riforma connesso al funzionamento interno del sistema europeo dell’asilo. Ne abbiamo parlato con Chiara Favilli, Professore associato di Diritto dell’Unione Europea dell’Università di Firenze e membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).

 

Professoressa Favilli, torniamo a parlare di spazio europeo e diritto di asilo, alla luce della nuova proposta di riforma, delle resistenze e delle torsioni di contenuto che avranno effetto sulla sua redazione finale. Anzitutto, il Regolamento di Dublino… perché si chiama  «Dublino III»?

Questo documento ha avuto una genesi molto simile a quella della Convenzione di Schengen: anch’esso, infatti, deriva da un accordo internazionale di Stati membri dell’Unione, ma prima che vi fosse l’attribuzione di competenza all’Unione in questa materia. La Convenzione internazionale siglata a Dublino nel 1990, già allora, conteneva le regole per determinare quale fosse lo Stato competente ad esaminare le domande di protezione internazionale.

Si noti che la ratio delle regole della Convenzione di Dublino, che ancora è presente leggendo la normativa, è quella di fare in modo che ci sia uno Stato competente per esaminare la domanda: uno solo, ma almeno uno. Evitare che una persona sia costretta a circolare in Europa  (oggi diremmo nell’UE) e cercare uno Stato che le dia una protezione: ecco la logica. Si tratta dell’esigenza di stabilire una regola positiva; e così nasce Dublino, in senso positivo, per evitare che vi siano i cosiddetti ‘rifugiati in orbita’.

Chi conosce un po’ di storia del diritto di asilo sa che un’ipotesi ricorrente riguardava persone costrette a circolare tra gli Stati cercando almeno uno Stato che conferisse loro protezione. Ecco quindi che Dublino sorge per evitare questa situazione e stabilire che Stati più o meno omogenei sul piano dei sistemi di accoglienza nel quadro internazionale vigente.

Tuttavia nel determinare lo Stato competente, si priva – indirettamente – la persona richiedente protezione del diritto di scegliere lo Stato. Quindi, nel momento in cui si pone questa norma di favore che stabilisce almeno uno Stato competente, di fatto poi si provoca questo effetto privativo. Oggi, nell’applicazione pratica del Regolamento di Dublino. la dimensione del divieto di scelta inerente allo Stato è diventata prevalente. Non c’è più ormai il problema di determinare che ci sia almeno uno stato competente: l’esigenza è venuta meno, mentre resta fondamentale questo obiettivo.

Il Regolamento oggi è arrivato alla versione III, ossia quella del 2013. La Convenzione è, sostanzialmente, il Dublino I, mentre il primo Regolamento dell’Unione è del 2003 (Dublino II). Siamo in una fase di modifica anche del Dublino III e forse avremo, entro giugno 2018, il Dublino IV. L’operazione giuridica è la stessa fatta per Schengen: sostituzione di un accordo internazionale con un regolamento. Dublino oggi non è un accordo o un trattato, ma una normativa dell’UE. Non è una questione meramente formale.

Su cosa si fonda l’attribuzione della competenza agli Stati?

Dublino III conferma i criteri già stabiliti in precedenza per determinare quale sia lo Stato competente per l’esame delle domande di protezione internazionale. Sicuramente, sulla sua base, sono competenti gli Stati che hanno rilasciato un visto (a qualsiasi titolo, magari anche un’autorizzazione all’ingresso per motivi  umanitari) o che hanno già rilasciato un permesso di soggiorno. Oppure, ci dice il Regolamento,  può essere competente lo Stato nel quale esiste già un familiare della persona (un genitore, il coniuge un fratello?). Il vero problema è dimostrare il legame familiare: nodo centrale del ricongiungimento familiare, nell’applicazione del Regolamento di Dublino, questa prova è qualcosa di drammatico. Raramente, infatti, gli Stati accettano prove non documentali relativamente allo stato familiare e i richiedenti, quasi mai, hanno prove documentali, arrivando da Paesi in cui, talvolta, non esiste nemmeno più l’anagrafe. Quindi esiste il criterio del legame familiare, ma raramente esso troverà applicazione. Infine il requisito previsto come residuale, che diventa prevalente, è quello dello Stato di primo ingresso (irregolare – diversamente ci sarebbe stato il primo requisito: riconoscimento del visto e autorizzazione all’ingresso).  L’Art. 13 Regolamento Dublino disciplina l’ingresso illegale. «Irregolare» è qualsiasi attraversamento di frontiera senza un visto o autorizzazione diversa di ingresso, se non per motivi di protezione internazionale. L’Italia ha cercato – e io ho creduto molto a questa strada – di dimostrare che quando c’è un afflusso massiccio di persone, soprattutto via mare, che devono essere necessariamente soccorse (e, quindi, lo Stato non ha alternativa) quello non è ingresso irregolare. L’Italia, come anche altri Stati, ha cercato di dimostrarlo in una causa di fronte alla Corte di Giustizia dell’UE, decisa nel luglio 2017, nella quale però la Corte non ha accolto questa argomentazione. La Corte ha ribadito che qualsiasi ingresso irregolare di richiedenti asilo, anche quando avvenga a seguito di ricerche e soccorso in mare, comunque è un ingresso irregolare ai sensi dell’Art. 13. Per ora questa è la posizione dei Governi, delle istituzioni e anche della Corte. Ecco perché dico che oggi c’è (non dico una ‘debolezza’: le corti non funzionano per essere valutate anche sul piano politico) una tendenza all’appiattimento  sulle posizioni governative anche da parte delle istituzioni europee, in particolare della Corte di Giustizia.

Quindi qualsiasi ingresso senza visto o altra autorizzazione, in qualsiasi modo avvenga, rientra nell’Art. 13 e determina la competenza dello Stato di primo arrivo. L’Italia sconta questa interpretazione…

Il criterio residuale prevale: ed è quello che l’Italia spesso contesta, perché essendo Stato di frontiera esterna risulta costretta a esaminare domande di protezione in numero decisamente superiore rispetto a quelle che esaminerebbe se si trovasse geograficamente in un’altra posizione.

Ma allora perché l’Italia ha firmato?

Quando l’atto fu firmato, nel 1990, il diritto degli stranieri era completamente diverso. Negli anni Novanta, si parlava poco del diritto di asilo. Allora il problema era proprio quello di trovare uno Stato competente, la ratio era trovare una tutela per i richiedenti protezione internazionale, affinché ci fosse ameno uno Stato ritenuto competente. E il richiedente in questione era il ‘classico’ rifugiato politico. La sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 1 ottobre 1999 riconosceva direttamente il diritto costituzionale di asilo e  riguardava il famoso caso Ocalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), arrivato in Italia dalla Russia il 12 novembre 1998 (durante il Governo D’Alema), al quale fu inizialmente negato l’asilo (pressioni da parte di Turchia e USA).

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