«Non ci saranno elezioni palestinesi senza Gerusalemme, e Israele non ha alcun diritto di veto», così si sono espressi i diversi partiti e movimenti palestinesi in una dichiarazione congiunta al termine di una riunione per discutere l’argomento. E l’argomento è grave. E’ quello che riguarda la partecipazione alle elezioni parlamentari del 22 maggio e alle elezioni presidenziali del 31 luglio dei palestinesi di Gerusalemme Est. Fin da subito quello della partecipazione dei palestinesi gerosolimitani è stato considerato al centro dell’attenzione in quanto sarebbe un valido motivo per l’ennesimo rinvio o annullamento delle elezioni (che da 15 anni non si tengono).
La popolazione palestinese di Gerusalemme Est è stimata in 330.000 / 340.000 persone, che quotidianamente combattono per restare in questa area contesa dai coloni ebrei.
A febbraio, l’Autorità Palestinese ha informato Israele della sua decisione di tenere elezioni,anche a Gerusalemme, invitando il Hoverno israeliano a non ostacolarle. Tecnicamente l’Autorità palestinese non ha necessità di chiedere l’autorizzazione a Israele per tenere elezioni, neanche a Gerusalemme Est. Gli israeliani -secondo fonti riportate da alcuni media dell’area- avrebbero chiesto alla controparte palestinese di aspettare per un riscontro fino a dopo le elezioni israeliane del 23 marzo. Le elezioni israeliane si sono tenute, ma il Governo israeliano continua a evitare di dare una risposta ai palestinesi. Così, i palestinesi hanno alzato la voce sulla questione, che è tutt’altro che secondaria, perchè tenere le elezioni a Gerusalemme non è una questione tecnica,bensì politica. Infatti, accettare di non tenere le elezioni a Gerusalemme sarebbe un riconoscimento dell’occupazione israeliana della città, anzi, equivarrebbe al riconoscimento della sovranità di Israele sulla città.
Dal punto di vista tecnico i palestinesi stanno vantando esattamente quanto spetta loro, almeno secondo gli Accordi di Oslo, i quali impegnano Israele a consentire ai palestinesi di Gerusalemme est di votare. L’articolo VI dell’allegato II dell’accordo del 1995 -noto come accordo sul periodo di transizione o Oslo 2- relativo alle disposizioni per le elezioni a Gerusalemme, afferma che «un certo numero di palestinesi di Gerusalemme voterà alle elezioni attraverso i servizi resi negli uffici postali di Gerusalemme, conformemente alla capacità di tali uffici postali».
Nel 1996, a 5.367 residenti palestinesi di Gerusalemme Est è stato permesso di votare in cinque uffici postali. Nelle elezioni del 2005 e del 2006, il numero degli uffici postali è stato portato a sei con una capacità di 6.300 elettori. I voti sono stati poi inviati per posta alla Commissione elettorale centrale palestinese. Il resto della popolazione palestinese ha votato nei centri elettorali situati alla periferia della città.
Israele rivendica l’intera Gerusalemme come sua capitale, mentre i palestinesi considerano che Gerusalemme Est, sulla base dei confini del 1967, sia la capitale riconosciuta del loro futuro Stato palestinese. Nel 2017, l’Amministrazione di Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. Secondo alcuni osservatori, il silenzio di Israele esprimerebbe la volontà del Governo israeliano di reprimerebbe l’attività dell’Autorità Palestinese all’interno di Gerusalemme, considerandola una violazione della sovranità israeliana nella sua capitale.Quale modo migliore per accontentare la destra crescente in Israele e contestualmente suggellare lapolitica dell’Accordo americano del secolo, come ha sottolineato in questi giorni anche Azzam al-Ahmad, alto funzionario di Fatah, «Ciò minerebbe qualsiasi discussione futura sul fatto che la città sia la capitale del futuro Stato palestinese»,sarebbe la sepoltura degli Accordi di Oslo,convitato di pietra di queste elezioni.
Vero è, si fa notare, che gli Accordi di Oslo, firmati tra Israele e l’OLP, stabiliscono anche che ogni fazione palestinese alle elezioni deve accettare la legittimità di Oslo, che impegna i palestinesi a riconoscere Israele e ad abbandonare la lotta armata. Alcune delle forze politiche che hanno annunciato che parteciperanno al prossimo votolegislativo -tra cui Hamas, ma non è il solo- respingono gli accordi di Oslo. Per tanto Israele potrebbe decidere di impedire il voto a Gerusalemme Est adducendo questo a motivazione.
Israele teme che Hamas possa vincere con una schiacciante maggioranza, per tanto come minimo attiverà molte restrizioni, tra cui il divieto di pubblicità elettorale, impedirà (come già accaduto in passato) la campagna elettorale, la propaganda politica, minaccerà i leader di Hamas perchè non si candidino o ritirino la candidatura, e userà il pugno di ferro preventivo, anche mettendo in campol’intelligence interna, lo Shin Bet. Solo lunedì, le forze armate israeliane hanno arrestato 24 palestinesi, per lo più leader di Hamas, da marzo le ondate di arresti, secondo Asra Media Office, hanno portato 4.400 palestinesi ad essere detenuti, inclusi 11 ex membri del Parlamento palestinese.
Se Israele non permettesse ai palestinesi gerosolimitani di votare, questa potrebbe diventare, «una scusa, un modo per tutte le parti di scendere dall’albero con dignità e non rischiare di perdere il potere», ha detto a ‘Times of Israel‘ l’ex funzionario della sicurezza israeliana Michael Milshtein.Hamas, a sua volta, ha accusato Abu Mazen, Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, di usare Gerusalemme Est come scusa per «fuggire dal percorso elettorale». In effetti l’impossibilità di tenere le elezioni a Gerusalemme Est sarebbe una validissima motivazione per annullare il voto, visto che la questione è politica, non tecnica. Certo, Hamas e Fatah potrebbero decidere, in caso di rifiuto israeliano, di andare allo scontro con Israele, «trasformare le elezioni in città in una battaglia,confronto e scontro, il che significa imporle come una situazione di fatto piazzando urne nelle strade e scontrandosi con l’occupazione», come ha dichiarato, all’agenzia ‘Anadolu‘, Hatem Abdel-Qader, ex legislatore e membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah,
Daoud Kuttab, noto giornalista palestinese e direttore generale di Community Media Network, organizzazione no-profit dedicata al progresso dei media indipendenti nella regione araba, è tra coloro che seguono il processo elettorale palestinese. Secondo Kuttab, questo del voto di Gerusalemme Est è un problema che sarà superato: “Penso che alla fine onoreranno gli accordi di Oslo e consentiranno il voto negli uffici postali”.
Se così fosse verrebbe meno la motivazione per eccellenza per il temuto rinvio o annullamento dell’appuntamento elettorale. A distanza di poco più di un mese dalle elezioni legislative il quadro è abbastanza definito e non manca di motivi di riflessione. Ne parliamo dunque con Daoud Kuttab.
Daoud non credi che 36 liste per le elezioni legislative siano troppe? E quale è il clima che si respira?
Sicuramente c’è sete di voto, lo si vede dal fatto che il 94% degli aventi diritto si è registrato. Sì, 36 liste sono troppe, ma questo è il risultato dell’assenza di elezioni regolari, e l’elezione permetterà di conoscere il loro reale peso tra la gente.
Quanto è profonda la crisi di Hamas e Fatah? Presentandosi separati, cosa ti aspetti che potranno portare a casa?
E’ una riflessione onesta sulla situazione sul campo: la speranza è che dopo le elezioni si uniscano.
È possibile che il risultato elettorale produca la stessa ingovernabilità della quale Israele soffre da tempo?
Non proprio. La Palestina è un sistema presidenziale mentre Israele è un sistema parlamentare.
La sinistra non è riuscita a trovare un accordo per una lista unitaria. Senza l’accordo, presentandosi disunito, rischia l’estinzione?
È difficile per la sinistra, o per chiunque altro, conoscere il loro reale peso tra le persone senza elezioni regolari. La sinistra si è in gran parte estinta prima delle elezioni. Sono preoccupato che la maggior delle liste di sinistra non superi la soglia per l’ingresso in Parlamento,
Parliamo della candidatura di Marwan Barghouti. C’è chi crede che Barghouti con la sua lista possa rubare voti a Fatah, ma anche ad Hamas, e diventare la punta della bilancia del prossimo governo palestinese. È così?
È difficile da dire, ma la lista attrae molti che si oppongono a tutte le fazioni politiche.
E pensi che correrà per la presidenza?
Si sforzerà di correre a meno che non riescano a trovare un modo per convincerlo a non correre, il che è improbabile. La soluzione migliore potrebbe essere un sistema con un presidente e un vicepresidente.
Cosa significherà per la Palestina un presidente in prigione?
Significherà che ci sarà un parallelismo rispetto la realtà della Palestina; anche la Palestina è una grande prigione.
In un tuo recente intervento, hai parlato della decisione di Biden di ripristinare i finanziamenti all’UNRWA. Possiamo classificare il finanziamento tra quel ‘fiume di denaro’ che alcuni hanno ipotizzato sarà pagato da vari soggetti per influenzare il voto palestinese?
No, non credo che influenzerà il voto.
Nel tuo intervento ricorda gli impegni che Biden ha preso con i palestinesi durante la campagna elettorale e che finora sono lungi dall’essere onorati. Ti aspetta almeno un segnale in direzione di questi impegni prima delle elezioni? E i palestinesi credono davvero che Biden possa influenzare Israele?
Nessuno si aspetta molto da Biden in termini di pressione su Israele, ma pensano anche che sarà migliore di Trump.