Davanti al mio naso, mentre scrivo, c’è un pezzo di mattone rosso, di quelli che i muratori usano per fabbricare le nostre case, gli ospedali in cui ci curiamo, le scuole frequentate dai nostri figli. Gira per il mio studio da otto anni, qualche volta è sopra il mio comodino, altre sulla scrivania, in questi giorni su una delle mensole-libreria che sovrastano quest’ultima. Talvolta me lo porto in giro per l’Italia, quando l’argomento riguarda i diritti umani. Verrà con me a Firenze, ad esempio, il 27 di novembre, quando cercherò di fare capire ad alcune centinaia di liceali quanto grandi siano i disastri cui possono condurre gli abusi di soggettività, soprattutto quando si parla di diversità, tema che lasciato in mano a individui primitivi -soprattutto se politici- può scatenare vere e proprie guerre.
Non è un pezzo di mattone qualsiasi, possiede una storia non trascurabile. Potrei dire che l’ho rubato, ma non è il termine giusto, diciamo che l’ho raccolto e me lo sono portato a casa. Esattamente dalle parti di ciò che rimane di una rudimentale camera a gas, quella in cui terminò la propria esistenza la filosofa e mistica tedesca, di origine ebraica, Edith Stein. Il piccolo edificio era stato comprato, oppure requisito, dai nazisti quando ancora non avevano costruito e organizzato la loro spaventosa fabbrica della morte di Auschwitz-Birkenau. Proprio nel perimetro del grande campo di sterminio si trova la casetta, il cui proprietario, prima degli aguzzini, era un contadino. Ora è un rudere, per l’esattezza sono rimaste solo le fondamenta, mattoni che il tempo continua a sbriciolare.
Il tocco che avevo raccolto è poco più grande di una noce, molto poroso e leggero, probabilmente ospita delle tracce del famigerato Zyklon B, micidiale agente fumigante a base di acido cianidrico con cui vennero gassati milioni di ebrei.
Quei poveretti, in attesa del loro turno, posti di fronte all’ignoto, cominciavano a tremare, esattamente come gli animaletti che presto sarebbero stati triturati.
A questo punto dovrei precisare che non intendo mettere sullo stesso piano la barbarie nazista e quella dei produttori di pulcini, ci mancherebbe, eppure mi domando perché mai coloro che si sono presi il merito e la responsabilità della diffusioni del filmato, che tutti i papà e le mamme dovrebbero vedere coi loro figli, sentano il dovere di esprimere pensieri del genere: «La cosa più sorprendente di questo filmato, a mio parere, è il senso quasi primordiale di paura, comune a tutte le creature viventi: la paura di essere gettato sul nastro trasportatore, ristretto in minuscole scatole, caricato su camion, o di essere macinato vivo». Parole del portavoce di Animal Rights Israel, che mi sento di condividere appieno, riponendomi la domanda sulle ragioni che possono averlo spinto a usare un linguaggio così suggestivo.
Forse la risposta sta nel fatto che abbiamo avuto il medesimo riflesso condizionato, e in modo automatico nella nostra coscienza si sono sovrapposte immagini di esseri viventi, sia pure di specie diversa, che ognuno a modo proprio, dal più evoluto al più semplice, sentono che la vita è l’unica vera loro proprietà e, tolta quella, non gli rimarrà niente altro.
Non credo che il portavoce dell’associazione israeliana o il sottoscritto volessero fare assimilazioni tra esseri umani e pulcini, tuttavia non possiamo negare che qualcosa di ‘nostro’ in quegli occhietti smarriti lo abbiamo visto, qualcosa che ci accomuna attraverso l’appartenenza alla famiglia degli esseri viventi, una contiguità che ci pone quesiti impossibili da rimuovere, nemmeno quando sarà passata l’emozione generata dalla mattanza di quei piccoli pennuti.
La storia, lo sappiamo, la scrivono i vincitori, ma questo non è un privilegio, semmai un’enorme responsabilità, che va suddivisa tra tutti gli individui che della categoria fanno parte. Ognuno di essi resta libero di regolarsi come crede, ma nessuno può più pensare che quelle scene cosi scioccanti si ripeterebbero con la medesima frequenza se accrescessimo la nostra consapevolezza, la nostra capacità di immedesimarci nei ‘lontani’, che poi tanto lontani non sono, e modificassimo alcune abitudini di vita, a cominciare dal modo in cui ci nutriamo.