Nel 1933, in piena ‘grande depressione’, il presidente Franklin Delano Roosevelt promulgò il celebre Glass-Steagall Act, la legge fondamentale che sanciva la netta separazione tra istituti votati al risparmio e banche d’investimento come forma di tutela per i correntisti, che fornì peraltro un contributo determinante a instradare il Paese sulla via della prosperità economica raggiunta durante il periodo bellico e nell’immediato dopoguerra.
La misura rimase in vigore fino alla seconda metà degli anni ’90, quando il democratico Bill Clinton ne firmò l’abolizione che era stata decretata dal Congresso a maggioranza repubblicano. Ciò fece sì che la crisi del 2007-2008 si ripercuotesse in primo luogo sulla middle-class e sulle fasce sociali meno abbienti, volatilizzando centinaia di miliardi di dollari di risparmi e spingendo sul lastrico un numero esorbitante di cittadini statunitensi. Nel luglio 2010, il presidente Barack Obama, colpito dagli effetti devastanti della crisi, riuscì ad ottenere dal Congresso l’approvazione del Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, una legge finalizzata ad impedire gli ‘eccessi’ di Wall Street che attraverso l’introduzione del divieto alle banche di utilizzare i fondi depositati dai propri clienti per negoziare affari in conto proprio. Il che non ha tuttavia impedito ai grandi istituti di continuare ad operare attraverso il Multi-Strategy Investing (Msi), uno stratagemma che permette di coinvolgere negli affari altri individui ed enti privati, aggirando i vincoli del Dodd-Frank Act.
Durante l’ultima campagna elettorale, sia il repubblicano Donald Trump che il democratico Bernie Sanders avevano richiamato l’attenzione generale sulla necessità di introdurre leggi volte a spaccare gli istituti divenuti ‘too big to fail‘ e di ripristinare il vecchio Glass-Steagall Act, ritenuto molto più appropriato ed efficace del Dodd-Frank Act. Eppure, il trionfo elettorale di Trump non si è ancora tradotto nella messa in pratica di tali principi.
La ragione di ciò può essere individuata nella fortissima riluttanza dell’establishment statunitense a regolamentare la vita economica del Paese, conformemente a quella visione dello ‘Stato minimo’ che si è fatta progressivamente strada a partire dagli anni ’70, con il diffondersi dei principi elaborati dall’economista Milton Friedman. Il caposaldo fondamentale della dottrina propugnata dalla ‘scuola di Chicago’ prevedeva in primo luogo la liberazione dei movimenti di capitale, che sarebbe così andata ad affiancarsi alla libera circolazione di merci che era stata sancita nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods.
L’applicazione pratica della ricetta monetarista concepita dagli economisti di Chicago si ebbe a seguito dell’ascesa al potere di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e, soprattutto, di Ronald Reagan negli Stati Uniti. Come notano Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, sotto la Thatcher e Reagan «si determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli Stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario […]. [Ciò ha contribuito a creare] un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo all”internazionale dei capitalisti’, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, ‘proletari di tutto il mondo unitevi’, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi».
La liberalizzazione dei capitali promossa dai ‘Chicago boys’ fu comunque incoraggiata e imposta per diverse ragioni assai concrete. Occorreva, in primo luogo, favorire il ricircolo del denaro dell’Opec, che durante i primi anni ’80 aveva accumulato, grazie agli esorbitanti aumenti di prezzo indotti dagli shock petroliferi del 1973 e dl 1979, un gigantesco surplus quantificabile in circa 500 miliardi di dollari. I Paesi membri dell’organizzazione convogliarono l’80% circa di questo avanzo verso i Paesi industrializzati, nella speranza che gli enormi capitali investiti fruttassero alti profitti. Le banche commerciali operanti in questi Paesi sviluppati, che intendevano riutilizzare tali fondi attraverso il prestito estero, cominciarono allora ad esercitare forti pressioni affinché le restrizioni attraverso cui le singole nazioni proteggevano il mercato interno venissero definitivamente rimosse. Ciò ha fatto sì che nell’arco di trent’anni (1980-2010), gli investimenti esteri della Francia crescessero dal 3,6 al 57% del Pil, quelli della Germania dal 4,7 al 45,7%, quelli dell’Italia dall’1,6 al 28%.
Secondo l’economista Ignazio Masulli, se quella ricchezza fosse rimasta entro i rispettivi confini nazionali, la Francia avrebbe creato 5,9 milioni di posti di lavoro, la Germania 7,3 milioni e l’Italia 2,6 milioni – non è un caso che tutti i Paesi che hanno fatto massiccio ricorso alla delocalizzazione siano stati scavalcati nelle classifiche internazionali.
Il successo riscosso da questa campagna spinse poi le autorità dei Paesi industrializzati a promuovere analoghe deregolamentazioni interne, volte a favorire il rientro dei capitali investiti all’estero. Le banche europee approfittarono di questa ‘apertura’ del mercato per inondare i Paesi del terzo mondo di dollari, colonizzandoli economicamente – o tramite il meccanismo debitorio a interesse o mediante il rodato paradigma ‘armi contro materie prime’ – ed accollando allo stesso tempo ad essi i rischi connessi alla tenuta della moneta statunitense.
Con il passare del tempo, il binomio deregolamentazione-privatizzazione si è progressivamente trasformato nell’architrave del ‘Washington consensus’ che continua ancora oggi ad essere imposto, tramite Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, a tutti i Paesi che versino in difficoltà economiche. All’interno degli Stati Uniti, la deregulation ha portato non solo all’evidente depotenziamento dello Stato, ma anche a un’ondata di fusioni aziendali responsabili di una concentrazione di potere e ricchezza che negli Usa si era vista verso la fine del XIX Secolo. I sostenitori della deregulation ritengono che soltanto imprese di dimensioni simili possano competere efficacemente sul mercato mondiale, e si oppongono pertanto all’introduzione di qualsiasi norma ritenuta in grado di invertire la tendenza al gigantismo che caratterizza l’economia statunitense.