mercoledì, 29 Marzo
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Il doppio salto mortale di Boris: Scozia e Irlanda del Nord

Irlanda del Nord e Scozia. Due fantasmi di un passato terribilmente presente. L’Irlanda del Nord con il suo settarismo, la Scozia con il mai sopito desiderio di indipendenza. Per un Regno Unito Stato in subbuglio, a traballante guida Boris Johnson -impegnato a tempo pieno nella guerra ucraina-, Belfast e Edimburgo sono due seccature impreviste, fastidiose interferenze nell’agenda.

Un Parlamento a Holyrood che rivendica un mandato per un altro referendum sull’indipendenza è tutt’altro che un fatto secondario. E sta accadendo.
Il Primo Ministro scozzese, Nicola Sturgeon, leader del Scottish National Party (SNP), nei giorni scorsi, ha scritto a Johnson chiedendo il consenso formale per un nuovo referendum (il secondo)sull’indipendenza scozzese, da tenersi il 19 ottobre 2023.
Londra ha fatto sapere che avrebbe esaminato la richiesta, ma ha anche subito sottolineato la sua posizione secondo cui non è il momentoper un altro referendum, insomma non ha intenzione di concedere il consenso formale a un referendum. Edimburgo ha risposto che il referendum si terrà anche senza il consenso del Regno Unito.

Il primo referendum sull’indipendenza scozzese, si è tenuto nel settembre 2014, il risultato alla domanda ‘la Scozia dovrebbe essere un Paese indipendente?‘, è stato un secco 55% a 45% per i sostenitori della permanenza nel Regno Unito. A seguire, poi, il sostegno all’indipendenza è aumentato, raggiungendo un massimo del 58% nell’ottobre 2020. Da allora lo slancio sembra diminuito: un sondaggio all’inizio di giugno ha attribuito al ‘all’indipendenza il 47,5% delle intenzioni di voto. Resta il fatto che le elezioni del Parlamento scozzese del 2021 hanno visto un’altra vittoria del SNP e una maggioranza indipendentista.
La Brexit ha cambiato il campo di gioco,sottolineano i politologi. «Nel 2016, il Regno Unito ha votato, 51,89% contro 48,11% per lasciare l’UE. La Scozia, d’altra parte, ha votato 62% contro il 38% per rimanere. La Scozia, sostenevano l’SNP e altri, veniva ‘trascinata fuori’ dall’Europa contro la sua volontà. I legami tra l’Europa e la Scozia sono sempre sembrati forti e l’atteggiamento verso l’UE, in particolare gli atteggiamenti politici, più positivo. L’SNP ha sempre sostenuto che la Brexit rappresenta un cambiamento costituzionale significativo per il Regno Unito, ed è quindi un motivo per tenere un altro referendum».

Sturgeon aveva chiesto un secondo referendum -‘indyref2’- subito dopo che il Regno Unito aveva votato per lasciare l’UE nel referendum sulla Brexit del 2016. Richiesta sospesa dopo che SNP aveva perso 21 seggi alle elezioni generali del 2017, e poi ripreso nel 2019, proponendo il voto entro due anni. Covid-19 ha congelato tutto, ora il processo, secondo Sturgeon, ma anche secondo i Verdi di Scottish Greens Party, deve riprendere. Da qui la proposta di tenere il referendum il 19 ottobre 2023, sulla base di un progetto di legge sull’indipendenza pubblicato lo scorso anno, poco prima delle elezioni del Parlamento scozzese.
Per tenere un referendum legale, il governo del Regno Unito deve dare al Parlamento scozzese un cosiddetto ordine della Sezione 30 che Johnson si è ripetutamente rifiutato di fare affermando che l’esito del voto ‘una volta in una generazione’ del 2014 deve essere rispettato.
I sondaggi si sprecano. Uno dei sondaggi rileva 44% degli scozzesi è contrario al secondo referendum, il 43% a favore. Secondo Panelbase per il ‘Sunday Times‘, il 48% voterebbe per l’indipendenza, il 47% sarebbe contrario, mentre il 5% resterebbe indeciso, e potrebbe fare la differenza. Gli esperti sottolineano infatti che i sondaggi sono così serrati al momento, che tutto dipenderà da quando si entrerà in campagna elettorale referendaria, da come sarà condotta la campagna, come parlerà alle persone, la loro positività o negatività, e alla fine una minima oscillazione in una o altra direzione farà la differenza. ‘BBC‘ sostiene che gli esperti sondaggisti, analizzando l’ultima mezza dozzina di sondaggi, affermano che in media il sostegno all’indipendenza si attesta al 48%, con il 52% contrario, esclusi i voti ‘non so’.

La questione legata alla legittimità è di fatto la più importante dal punto di vista politico, e dunque di problematiche che si possono innescare per il 10 Downing Street, così come per Edimburgo e l’inattaccabilità dell’esito del referendum. Le questioni legali sono estremamente complesse, capaci di diventare il caso legale del secolo, perchè il disaccordo non è solo legale, è anche politico e storico, con mandati politici e istituzionali in competizione. Una vicenda che inevitabilmente si trascinerà e potrà contribuire a implementare il concetto di ‘sovranità’ nel Regno.

Jamie Maxwell, giornalista politico scozzese di Glasgow, scandaglia la sovrapposizione della questione in termini culturali-costituzionali. Maxwell afferma: «nell’antiquato sistema di classi della Gran Bretagna, la lingua rimane una metrica di potere straordinariamente durevole» – secondo dati dell’ultimo censimento del 2011, 1,5 milioni di scozzesi, circa un terzo della popolazione del Paese, si definiscono di lingua scozzese; nello stesso anno il governo scozzese ha lanciato una politica nazionalemirata a promuovere la lingua scozzese nell’istruzione e nei media. «La lingua è diventata una questione polarizzante con l’accelerazione del dibattito sull’indipendenza scozzese», con il «dibattito sul ruolo degli scozzesi nella vita politica che è spesso servito da proxy per questioni più ampie di classe, nazionalità e controllo culturale». E’ qui, afferma Maxwell, «che diventa più visibile la sovrapposizione tra la questione costituzionale scozzese e il ruolo degli scozzesi nel plasmare gli atteggiamenti politici. Molti nazionalisti scozzesi vedono le organizzazioni dei media britannici come pilastri dell’anglocentrismo unionista, che bloccano il percorso del Paese verso la libertà. Quando la Scozia ha votato contro l’abbandono del Regno Unito nel 2014, gli scozzesi più giovani, più poveri e più orientati verso la città hanno formato la base indipendentista, mentre gli scozzesi più ricchi, più anziani, più rurali e suburbani hanno sostenuto lo status quo. Queste dinamiche non sono scolpite nella pietra: dalla Brexit, l’entusiasmo per l’indipendenza è cresciuto tra gli eurofili nella classe media scozzese. Le tendenze generali suggeriscono che i parlanti scozzesi si inseriscono facilmente nei collegi elettorali fondamentali a favore dell’indipendenza». Questo, comunque, secondo Jamie Maxwell, tenendo presente che lo Scottish National Party «ha lavorato duramente per prendere le distanze dalle argomentazioni separatiste basate sull’etnia. Di conseguenza, la tesi dell’indipendenza è solitamente articolata in termini blandamente tecnocratici, con questioni esistenziali di identità e appartenenza poste sullo sfondo del discorso pubblico».

Dopo tutti i guai che lo hanno colpito, l’uscita della Scozia lascerebbe a Boris il marchio del Primo Ministro durante il cui mandato il Regno Unito è caduto a pezzi o quasi, per altro dopo la sanguinosa Brexit.
L’indipendenza della Scozia, farebbe perdere al Regno Unito l’8% della sua popolazione e del suo PIL, e circa un terzo della sua massa continentale, senza grandi ripercussioni sul commercio -mentre, secondo un rapporto della London School of Economics, pesantissime sarebbero le ripercussioni per la Scozia, quantificate in una perdita di circa 11 miliardi di sterline-, ma molto più grande e devastante sarebbe l’impatto sul ruolo geopolitico del Regno Unito nel mondo, sul suo soft power, diminuirebbe la sua capacità di proiettare i propri interessi sullo scenario internazionale. Non solo. Ci sarebbero gravissime ripercussioni in materia difesa e sicurezza, «con implicazioni significative sia per la Scozia che per il resto del Regno Unito, nonché per l’Unione Europea e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico», come rileva il Lowy Institute. Dove il problema più grave si attesterebbe sul nucleare, con «l’incertezza che circonda il futuro del programma di armi nucleari del Regno Unito, che è di stanza in Scozia».
Altresì, lo scioglimento del Regno Unito potrebbe anche avere un impatto sulla sua posizione e permanenza nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Potrebbe essere un momento chiave simbolico di cambiamento nell’ordine post-1945 e darebbe la possibilità ai sostenitori della riforma del Consiglio di sollevare la questione se il Regno Unito debba rimanere un membro permanente.
Tutto ciò al netto del fatto che l’uscita della Scozia determinerebbe un shock sull’identità nazionale, con il Regno che dovrà ripensare la propria identità, mentre il suo scioglimento sarebbe un’umiliazione nazionale tanto quanto per alcuni a Bruxelles sarebbe una rivincita per la Brexit.
Tutto ciò si riverserebbe sull’inquilino del 10 Downing Street. Così Boris, sta respingendo e resistendo. Per quanto, negare ripetutamente un referendum, avvisano gli osservatori, giocherà a favore di Sturgeon, alimenterà il nazionalismo e la sua narrativa anti-Westminster e costruirà ancora più sostegno per l’indipendenza.

L’altro danno figlio della Brexit di Boris si chiama Irlanda del Nord. E di mezzo c’è anche qui la tenuta del Regno Unito. L’uscita dal Regno di Belfast non è un tema affermato nel dibattito pubblico, ma si sta affacciando, e c’è chi la sta programmando. La decisione sulla Brexit ha sbilanciato la stabilità dell’Irlanda del Nord. E ora i nodi stanno venendo al pettine.

Mark Landler, a capo dell’ufficio londinese del ‘New York Times‘ e membro del Council on Foreign Relations, dalle colonne del quotidiano avverte: attenzione ai Troubles -la guerriglia tra nazionalisti cattolici e unionisti protestanti del non troppo lontano passatoe al post-Brexit.
Le «ultime azioni della Gran Bretagna possano suscitare vecchie animosità», rileva Landler.
Le ‘azioni’ che si intersecano sono sostanzialmente due. Da una parte, Londra vuole avere il potere di annullare l’accordo Brexit firmato sull’Irlanda del Nord. Dall’altra, il governo britannico ha proposto una legislazione che fermerebbe nuove indagini penali o azioni civili in relazione agli omicidi commessi durante i Troubles.

Con la Brexit si sono resi necessari accordi commerciali speciali per l’Irlanda del Nord perché ha un confine terrestre con un Paese dell’UE, la Repubblica d’Irlanda. «Prima della Brexit, era facile trasportare merci attraverso questo confine perché entrambe le parti avevano le stesse regole dell’UE». Con la Brexit si è reso necessario «un nuovo sistema perché l’UE ha regole alimentari rigide e richiede controlli alle frontiere quando alcune merci -come latte e uova- arrivano da Paesi extra UE», spiega i dettagli ‘BBC‘. «Il confine è anche una questione delicata a causa della travagliata storia politica dell’Irlanda del Nord. Si temeva che telecamere o posti di frontiera potessero causare instabilità. IlRegno Unito e l’UE hanno convenuto che la protezione dell’accordo di pace con l’Irlanda del Nord -l’accordo del Venerdì Santoera una priorità assoluta. Quindi, entrambe le parti hanno firmato il Protocollo dell’Irlanda del Nord come parte dell‘accordo di ritiro della Brexit».
«Invece di controllare le merci al confine irlandese, il protocollo prevedeva che eventuali ispezioni e controlli documentali sarebbero stati condotti tra l’Irlanda del Nord e la Gran Bretagna (Inghilterra, Scozia e Galles). Questi si svolgono nei porti dell’Irlanda del Nord. È stato inoltre convenuto che l‘Irlanda del Nord continuerà a seguire le norme dell’UE sugli standard di prodotto».
Ora Boris Johnson punta a cambiare le cose. «Il governo vuole creare corsie rosse e corsie verdi per le merci importate dalla Gran Bretagna nell’Irlanda del Nord. La corsia verde sarebbe riservata ai commercianti fidati che trasportano merci solo nell’Irlanda del Nord. Questi sarebbero esenti da controlli e controlli doganali. La corsia rossa sarebbe per i prodotti destinati all’UE, compresa la Repubblica d’Irlanda. Questi sarebbero sottoposti a controlli e controlli doganali completi.». Anche le regole fiscali sarebbero cambiate.
Le controversie sul protocollo minacciano la pace in Irlanda del Nord. Il partito nazionalista del Sinn Féin, il maggior partito dell’Assemblea, starebbe spingendo per arrivare a una situazione molto simile a quella scozzese, un referendum per l’uscita dal Regno Unito, anche considerando che secondo alcuni sondaggi il partito sarebbe in testa anche nella Repubblica d’Irlanda. In questo caso si tratterebbe di un referendum di unità irlandese. 25 anni dopo la firma dell’Accordo del Venerdì Santo «è oltre la farsa suggerire che è troppo presto per iniziare a pianificare un referendum», affermano dal Sinn Féin, negando che si voglia un referendum nell’immediato.
La possibilità di riunificare l’isola attraverso un referendum è previsto nell’accordo di Belfast o nell’accordo del Venerdì Santo.

Questa situazione Landler la rileva: la «Brexit ha infiammato le passioni in molti di questi quartieri lealisti e unionisti perché ha reso necessari complessi accordi commerciali con l’Unione Europea che secondo alcuni creano un cuneo tra l’Irlanda del Nord e il resto del blocco». E la collega a riemersi«problemi di identità». Quelli che derivano dalla proposta dal Primo Ministro Johnson, di togliere di mezzo «migliaia di omicidi irrisolti durante i tre decenni dei Troubles», azione che «garantirebbe l’immunità dall’accusa alle persone che collaborano alle indagini condotte da una nuova Commissione indipendente per la riconciliazione e il recupero delle informazioni». Ciò significherebbe «nessuna nuova indagine penale relativa alle uccisioni, che ha suscitato una forte opposizione da parte delle famiglie delle vittime di entrambe le parti. Dicono che li priverebbe della giustizia, specialmente nei casi in cui le forze di sicurezza britanniche o la Polizia fossero colluse con bande paramilitari». «Sebbene la legislazione, che il governo spera di approvare quest’anno, riguardi un numero di persone molto inferiore rispetto alle regole commerciali post-Brexit, è più facile da capire e, quindi, potrebbe alimentare con maggiore probabilità le tensioni».

Nessuno prevede un ritorno all’orribile violenzache nel 1969 ha segnato l’inizio dell’era moderna dei Troubles. «Ma gruppi paramilitari come la New IRA, l’Irish National Liberation Army e l’Ulster Defense Association operano ancora» nei quartieri di città come Derry, e principalmente nel traffico di droga. «“Con quei gruppi in giro, c’è sempre il rischio che le cose vadano a monte”, ha detto Peter Sheridan, un ex vice capo della Polizia dell’Irlanda del Nord, precedentemente noto come Royal Ulster Constabulary. “Il settarismo è vivo e vegeto qui, e questo è l’allevatore della violenza”» riferisce Mark Landler.

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