lunedì, 20 Marzo
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I cani di Sara Turetta ci possono salvare

Confesso che all’inizio faticavo a procedere nella lettura. Mi sembrava di scalare una montagna fatta di cocci di bottiglia, mi identificavo troppo con la protagonista, chiamata a muoversi tra difficoltà inaudite. Non crollava solo perché sostenuta da una volontà sovrumana, un tratto che impregna l’intero volume divenendone l’essenza stessa.

Tuttavia, non riuscivo nemmeno fermarmi, finendo per restare prigioniero in una terra di nessuno, dove si faticava a procedere ma nello stesso tempo non si poteva fare a meno di avanzare, per almeno due ragioni.

La prima era la posta in gioco, enorme, la vita di una miriade di creature, cani per l’esattezza, gettate in un ambiente ostile, devastato dalla mostruosità della dittatura di Ceausescu, dove tutto diventava difficile anche per gli umani, e la sopravvivenza appariva un lusso. Un ambiente incattivito dalla miseria fino alla conseguente disumanizzazione. Quando non puoi sfamare tuo figlio, non c’è spazio per altro, figurarsi per i cani, sottoposti a delle atrocità intollerabili, che fanno piegare il lettore e lo sommergono di domande a fondo chiuso.

La seconda ragione è che in quelle pagine si stava parlando sfacciatamente di noi, di me, mettendoci senza volerlo sul banco degli accusati. Il punto è che accadeva perché doveva accadere, accadeva a ragione, perché le sofferenze del mondo ci appartengono nella misura in cui, fidando che nel Pianeta funzioni sempre come a casa nostra, chiudiamo gli occhi e gli orecchi.

Il libro di Sara Turetta, ‘I cani, la mia vita’, è un’opera che lascia sgomenti, sembra uscita dalla penna di qualcuno che si è risvegliato dal coma, avendo però fatto in tempo a vedere cosa c’è dall’altra parte, restandone annichilito ma trovando la forza per apparecchiare un’impresa enorme, che riscatta e offre qualche speranza persino chi non sapeva, o non voleva sapere, nulla di quell’inferno dantesco.

È una cronaca che tutti dovrebbero leggere, per avere più chiaro che la normalità è solo una convenzione, qualche volta un’illusione.

Si parla di cani, soprattutto, e di altri animali, è vero, ma il soggetto sottinteso è la persona, l’essere umano, con tutto ciò che si annida nelle sue oscurità e che diventa visibile nelle sue azioni, raramente commendevoli, spesso incomprensibili, non di rado ingiustificabili.

È anche questo il libro di Sara Turetta, la storia di una donna che è riuscita a liberarsi davvero degli orpelli che ci opprimono, degli autoinganni che sanno di mitologia, come la carriera, e a mettere mano a un progetto di rara drammaticità e bellezza, fare dei cani randagi il centro della propria vita, salvandone, amandone, una quantità enorme, soprattutto nella Romania dell’ultimo ventennio, nelle cui vene scorre dolore, miseria e risentimento, tutti lasciti di un sistema di potere che, prima di uccidere, privava di ogni dignità, lasciandoti esposto ai tuoi istinti più violenti.

Leggendolo non posso fare a meno di pensare ad alcune pagine di Primo Levi, che ci mettono davanti all’essenziale, privandoci di ogni illusione, soprattutto quella più ingannevole, ossia che le cose si possano aggiustare da sole.
Non è possibile, bisogna metterci almeno un frammento della nostra vita, meglio se tutta, come è riuscita a fare Sara Turetta, una persona verso la quale non si può che provare un senso di gratitudine sconfinato, per avere compiuto, in nome e per conto di tutti noi, un’impresa difficile anche solo da immaginare, che se da una parte ci chiama, ripeto, senza volerlo, in correità, per le nostre omissioni, per il nostro sguardo che raramente supera la soglia di casa, dall’altra ci fa sentire orgogliosi di sapere che tuttavia è stato un essere umano, come noi, a compiere questo miracolo.

Se c’è qualcosa che da sempre mi crea sgomento è lo scempio che la nostra specie è riuscita a portare nella vita degli animali, incursioni profonde e crudeli, non dissimili da quelle che i nazisti operarono nella vita degli ebrei. Ancora oggi, incredibile a dirsi, la comunità europea non riesce a piegare le resistenze di musulmani ed ebrei che si oppongono alla macellazione degli animali dopo stordimento compassionevole, la cosa incredibile è che si permette la barbarie in nome della libertà religiosa, come se un rito possa valere più di una vita, fosse anche quella di un criceto.

Capisco che qualcuno possa trovare improprio il paragone con lo sterminio degli ebrei, ma basterebbe fare un giro negli allevamenti intensivi e nei macelli per rendersi conto di quali indegnità sono capaci gli uomini e di come il ‘salto di specie’, sia più facile di quanto si creda, nel senso che esiste una coerenza formidabile nei comportamenti degli individui, e se un uomo è capace di seviziare un animale prima o poi lo farà anche con i propri simili. Purtroppo, non sempre è vero il contrario, l’affetto di Stalin e di Hitler per i loro animali, certo non si estendeva al genere umano.

Per questo, ma non solo per questo, parlare di animali, soprattutto come lo fa Sara Turetta nel suo libro, è parlare di noi, perché nel rapporto con le creature dotate di anima si palesa una buona parte di ciò che siamo. Un rapporto che il più delle volte è semplice disinteresse, mancanza di curiosità, di domande sulla vita e la morte di creature incolpevoli, pare siano 170 miliardi all’anno quelle che finiscono sulle nostre tavole, ci nutrono e ci regalano esistenza, senza che mai si levi una parola di gratitudine o qualche semplice domanda.

Ecco, le domande. Ne maturano parecchie, a ogni pagina, soprattutto sul lettore stesso, ognuno troverà le proprie, sempre che ne abbia voglia. Si susseguono personaggi da girone dantesco, durante il racconto, dai diseredati, cattivi per disperazione, fino ad alcuni veri e propri farabutti per vocazione, anche nello stesso mondo del volontariato.
Domande ineludibili di fronte alle quali non conviene scappare, perché rappresentano un’occasione, quasi l’ultima, di trovare pace interiore e decidere che la vita è tutto ciò che respira, che tutte le volte in cui ne perdiamo arbitrariamente anche un solo frammento, stiamo rinunciando al privilegio di essere umani, consegnandoci lentamente a un destino dove tutto è possibile, anche l’inimmaginabile, anche le atrocità più grandi.

I cani di Sara Turetta ci possono salvare, non chiedono quasi nulla, si accontenterebbero si essere guardati negli occhi, un gesto che potrebbe salvarci, perché in quegli sguardi c’è la parte migliore di noi, proprio quella che abbiamo deciso di disconoscere.

* Analista adleriano

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