Un giorno, su queste pagine, un po’ stufi di leggere solo disastri, polemiche, critiche e sentimenti di impotenza nel corso della pandemia, abbiamo provato a fare l’elenco degli apprendimenti sociali che la crisi sanitaria, pur con un tasso di letalità pesante, pur con lo sconquasso nel sistema ordinario della salute, pur con le incertezze sulla sua evoluzione, aveva messo in cantiere nella vita di tutti noi.
Un elenco abbastanza nutrito. Che sta diventando la base culturale della progettazione connessa tra organizzazioni complesse (istituzioni e imprese) e cittadini (individui e famiglie) per il ‘dopo’.
Non c’è ‘dopo’, se non ci si stacca emotivamente dalla morsa impaurita degli eventi.
Così merita di provare oggi ad imbastire una lista, forse ancora confusa e certamente parziale, degli apprendimenti -alcuni cognitivi, altri potenzialmente progettuali, comunque non solo sociali ma anche politici e culturali- che l’orribile vicenda della guerra russo-ucraina mette in movimento in Italia e nel quadro euro-occidentale.
Non entrerò nel merito del negoziato che appare, a fine marzo, appeso a infinite complicazioni (di metodo, di merito, di ruolo dei mediatori, di connessione con i tempi del posizionamento militare, di aspetti insondabili, eccetera).
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Sappiamo meglio cose è e dove è l’Ucraina: Ci è più chiaro quale sia la sua geo-storia, con chi confina, che lingue parla, a quale radice risale il suo patrimonio urbano, che significato ha il suo approdo al mare e la sua assenza di alture. Non abbiamo fatto questi apprendimenti né a proposito dell’Afghanistan, né dell’Iraq, né -in precedenza- del Vietnam o della Corea. Odessa era un riferimento della storia del cinema. Leopoli era rimasta nella cornice austroungarica. Kiev era assorbita nella storia russa. Mariupol mai sentita. Sono cambiati i media, è vero, e anche la loro gerarchia impaginativa. Ma è cambiato soprattutto il nostro ‘sguardo europeo’, riconoscendo elementi di coinvolgimento non sospettati. Putin sosteneva che l’Ucraina non esiste, cioè che esiste un solo grande spazio russo. Il risultato geo-resistenziale del mese di guerra ha rovesciato questa teoria.
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Abbiamo riportato nel vocabolario emotivo e cognitivo dei nostri giovani, la nozione di rischio connesso a guerre, che era completamente marginalizzata dalla potenza dell’ombrello culturale svolto dall’Europa Unita. È una discontinuità che sconta un elemento negativo -il contesto che l’ha prodotta- ma anche un elemento evolutivo, centrato sulla condizione della percezione del reale che quando avviene fa comunque crescere.
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Abbiamo ricucito la crescente distanza tra la nozione di est e di ovest. Quella che aveva, nel tempo dell’ampliamento europeo, conseguente alla caduta del muro di Berlino, sostituito in parte significativa l’idea delle due velocità tra nord e sud Europa. Non abbiamo ancora smesso di fare questa demarcazione -soprattutto nel sistema mediatico, ma anche in politica- ma questa percezione dovrà evolvere ora che si va affermando di più l’idea che sia legittimo non concedere alla Russia una incontrastata rappresentanza del senso storico e politico di ciò che si intende per ‘Est Europa’.
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La posizione ungherese -contraria alla linea anti-putiniana dei Paesi europei, tra cui in gran rilievo quella degli Stati dell’est Europa, Polonia, Romania e Repubblica Ceca- spacca Visegrad e ferma la già scossa linea di coesione della destra sovranista europea che da anni non appariva così confusa e che ancora nel 2018 sollecitava accordi con Russia Unita (il partito di Putin) per sfasciare la UE. Questione che scioglie alcuni nodi che tenevano in stallo anche l’aggiornamento identitario stesso dell’Europa.
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La conduzione nella crisi della posizione italiana mantiene una tenuta euro-atlantica, malgrado pulsioni interne ambigue (sia a destra che a sinistra), che non profila cedimenti abituali nel quadro interno a fronte di insorgenze populistiche che altre volte erano ispirate da ambiti filo-putìniani. Essa ha prodotto un avvicinamento rilevante per gli interessi italiani con il mutato quadro politico tedesco e ha prodotto per la prima volta una iniziativa di politica estera italiana dichiaratamente aperta al Mediterraneo.
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Ordine globale, Europa tra le grandi. La partita è in movimento e il riassetto non sarà una intramuscolare. Ma prima di questa guerra il tema era nebuloso, slittava per la minimizzazione formale della Cina (mentre tendeva a crescere come potenza economica); per le questioni interne, agli USA tra uno scontro non risolto tra repubblicani e democratici; per la famosa indecisionalità della politica estera europea. La forzante arriva dal soggetto politicamente più debole ma nuclearmente più forte. Con un colpo basso, che ha spiazzato anche il suo gabinetto. Ma forse la vicenda ha svegliato Bruxelles e ha messo in movimento un impensato riassetto metodologico della politica Europa. Argomento su cui sarebbe cosa saggia non esagerare troppo e continuare a vedere e discutere le debolezze.
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La questione militare e della sicurezza è una parte significativa di questo ‘riassetto‘, in cui persino il declino che appariva inevitabile della NATO trova una smentita, nel cui ambito ha ora il suo spazio ‘europeo’ anche la Turchia, che veniva ormai tenuta fuori dalla porta ogni volta che si festeggiava un compleanno. Non si possono chiudere in due parole le conseguenze di questa riabilitazione nella agenda delle cose reali europee e italiane. Ma la immediata visita al Quirinale del capo del governo, dopo una frizione con la maggioranza (M5S) sul tema, segnala un punto di rapido cambiamento delle priorità. L’allerta alle armi nucleari lanciata come deterrente comunicativo da Putin alle prime avvisaglie di impantanamento dei suoi tanks è stata la sigla della rubricazione della guerra ucraina nel futuro e non nel passato, ciò malgrado la grammatica militare quotidiana medioevale.
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La velocità impressa ai processi (conoscenza/azione) appartiene al quadro di un sistema di interessi che vanno regolati prima di fare nuove regole globali sulle quattro transizioni che occupano le strategie di tutti i governi del mondo (sostenibilità, tecnologia, energia, cybersicurezza). Questa guerra ne acchiappa due centralmente (le ultime due). Ma l’apprendimento in questione riguarda il fatto che è stato puramente propagandistico parlare in questi ultimi anni di queste quattro transizioni, dietro a cui si collocano interessi giganteschi da far vivere o da far morire, immaginando e raccontando spesso un festoso convegno di gioiose immaginazioni. Ci ha pensato l’ex tenente colonnello del KGB Vladimir Putin a spiegare che queste transizioni esplicitano anche la vecchia retorica churchilliana: ‘lacrime e sangue’.
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Il prezzo pagato da Putin per questa disinvoltura corrisponde a un tema diffuso nel mondo. L’insufficienza dei gruppi dirigenti, per avere essi quasi dappertutto separato cultura e potere. Dunque, per agire su basi artificiose, tecniche, pulsionali, a breve. Anche i Paesi che si fanno passare per ‘potenze’ hanno peggiorato la qualità strategiche dei dirigenti. E la storia ambigua della sua ascesa al potere sotto Eltsin e del suo dispotico organizzare la fase autocratica ora ne riducono il peso politico internazionale, fattore che finirà per innescare anche la sua fragilizzazione interna. Quando ci chiediamo, a volte senza risposte, come finiscono i dittatori, si tratta di aspettare l’occasione per avere gli elementi di conoscenza della parabola. Forse ci siamo.
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E siamo così arrivati al quadro degli apprendimenti che riguardano la rappresentazione globale di questo copione, pirandellianamente scritto da molti autori ma ispirato shakespearianamente da un gesto folle. C’è il terreno della guerra informativa, in cui appenderemo alla fine mille novità connesse alla variante digitale qui accelerata. Ma circa il ruolo della propaganda la musica è sempre la stessa. Vince le battaglie ma raramente le guerre. Il vero apprendimento qui esploso è che la reputazione non è più un fattore di complemento e basta un mese di diluvio mediatico internazionale per distruggere la borsa, azzerare la moneta nazionale, far nascondere carte e documenti di antiche complicità (l’ultima cancellazione l’ha fatta il Consiglio regionale della Lombardia dichiarando non più valido un odg leghista a favore di Putin quando si riprese la Crimea). Alla fine, la crisi reputazionale fa danni come i missili: distrugge un’immagine che era funzionale ad esercitare un ruolo internazionale attivo.