martedì, 21 Marzo
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Guerra in Ucraina: l’ordine globale post-occidentale in gestazione

Tre giorni ancora e finalmente si svelerà il fatidico 9 maggio, il ‘Giorno della vittoria’ in Russia, la festa che commemora la vittoria russa sulla Germania nazista nella Seconda guerra mondiale, nel 1945.
Da settimane si parla di questo 9 maggio 2022. Inizialmente doveva essere la data della fine della guerra in Ucraina, di un ipotetico armistizio. Poi di qualcosa di esattamente opposto. Gli analisti occidentali hanno iniziato ritenere che il Presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, voglia sfruttare il significato simbolico e il valore propagandistico della giornata per annunciare l’esito dellaoperazione militare speciale‘ in Ucraina, oppure una grande escalation delle ostilità fino alla dichiarazione di guerra propriamente detta.
Papa Francesco, nell’intervista del 3 maggio al ‘
Corriere della Sera‘, non sembra credere nella ‘svolta di maggio’, ha infatti detto: «Orbán, quando l’ho incontrato, mi ha detto che i russi hanno un piano, che il 9 maggio finirà tutto. Spero che sia così, così si capirebbe anche la celerità dell’escalation di questi giorni. Perché adesso non è solo il Donbass, è la Crimea, è Odessa, è togliere all’Ucraina il porto del Mar Nero, è tutto. Io sono pessimista, ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi».
Gli analisti tendono a privilegiare la dichiarazione formale di guerra. Visto come è andata la guerra fino ad oggi, Putin ha bisogno di carne da cannone, la dichiarazione di guerra gli permetterebbe di mobilitare le forze di riserva e di arruolare più coscritti, così da coprire le perdite che in queste settimane Mosca ha subito -perdite stimate tra i 10mila e i 15mila uomini.

Qualsiasi cosa decida di dire o fare Vladimir Putin il 9 maggio, una cosa è certa: già tutto non è più come prima e mai più sarà come prima; per come sarà il ‘dopo’, si dovrà attendere la fine del conflitto. Tre gli elementi che contraddistinguono questo ‘già tutto non più come prima’.

In primo luogo: Vladimir Putin non è isolato, , tanto meno, unparia sulla scena internazionale‘ come aveva promesso lo avrebbe costretto essere il Presidente USA, Joe Biden, quando, il 24 febbraio, il Presidente russo ha ordinato l’invasione dell’Ucraina.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, composta da 193 membri, il 2 marzo, ha votato a stragrande maggioranza -141 a 5- per denunciare l’intervento militare della Russia. Solo Bielorussia, Eritrea, Siria e Corea del Nord si sono unite alla Russia per opporsi alla risoluzione. Circa 35 Paesi, tra cui molti dell’Africa, si sono astenuti.
Una maggioranza, dunque, solo apparentemente quella che si è imposta alle Nazioni Unite.
Le Nazioni Unite hanno votato tre volte dall’inizio della guerra: due volte per condannare l’invasione russa e una per sospenderla dal Consiglio per i diritti umani. Queste risoluzioni sono state approvate. Ma se si sommano le dimensioni della popolazione in quei Paesi che si sono astenuti o che hanno votato contro le risoluzioni, queste ammontano a più della metà della popolazione mondiale.

Sulle sanzioni imposte dagli USA, poi, a parte alleati militari eamici strettidegli Stati Uniti in Occidente e Asia orientale, la maggior parte del mondo non è stata interessata a unirsi alla campagna guidata dagli Stati Uniti per isolare la Russia.
Il Segretario USA al Tesoro, Janet Yellen, ha stimato che
la coalizione delle Nazioni sanzionatrici, per quanto includa la maggior parte delle Nazioni più ricche del mondo e rappresenti circa la metà dell’economia globale, rappresentaperò solo circa il 15% della popolazione mondiale.
Non solo. Alcune delle più grandi Nazioni del mondo, in particolare India e Cina, stanno aumentando significativamente le loro importazioni dalla Russia, in particolare di materie prime che ora per loro sono disponibili a prezzi ben al di sotto dei livelli del mercato mondiale.
Nell’ultimo decennio, la Russia ha coltivato legami con i Paesi del Medio Oriente, dell’Asia,dell’America Latina e dell’Africa, regioni dalle quali la Russia si era ritirata dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. La solidità di queste relazioni si sono viste proprio in questo frangente.

Alla guida di questocartellodi Paesi del mondo non-Occidentale che insieme esprimono la maggioranza della popolazione mondiale, la Cina. Pechino si è astenuta dai voti delle Nazioni Unite che condannano la Russia e ha votato contro la risoluzione volta a sospendere il Paese dal Consiglio per i diritti umani. Secondo gli analisti, senza la sicurezza «che la Cina avrebbe sostenuto la Russia in qualunque cosa facesse, Putin non avrebbe invaso l’Ucraina». E si chiama in causa la dichiarazione congiunta russo-cinese del 4 febbraio, firmata quando Putin ha visitato Pechino, all’inizio delle Olimpiadi invernali, la quale «esalta la loro partnership ‘senza limiti’ e l’impegno a respingere l’egemonia occidentale». Ciò malgrado, si fa notare, come la Cina sia stata il principale partner commerciale dell’Ucraina e come l’Ucraina faccia parte del progetto Belt and Road, e che per tanto Pechino non possa certo essere disinteressata alla devastazione economica che il Paese sta vivendo. Xi ha deciso di allearsi a Putin, condividendo l’insoddisfazione per l’attuale ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti, che ritengono contrario agli interessi del resto del mondo, a partire ovviamente da Pechino e Mosca, nella determinazione di cambiare lo status quo e creare un ordine globale post-occidentale.

L’India è stato l’altro grande alleato di MoscaNew Delhi ha rotto con gli Stati Uniti nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, astenendosi, a febbraio, sulla risoluzione che denuncia l’aggressione russa in Ucraina. Non solo l’India non ha attivato sanzioni, ma, al contrario, da subito è entrata in trattativa con Mosca per l’acquisto di petrolio russo scontato, che in questi giorni si sta perfezionando.
A parte il fatto che l’India acquista due terzi delle sue armi dalla Russia ed è il principale cliente di armi di Mosca,
il fattore Cina è stato fondamentale nel definire il comportamento di New Delhi. L’India considera la Russia come un importante bilanciatore contro la Cina, altresì la Russia ha agito per disinnescare le tensioni indo-cinesi dopo gli scontri al confine nel 2020. Inoltre, la tradizione indiana di neutralità e scetticismo nei confronti degli Stati Uniti della Guerra Fredda ha creato una notevole simpatia pubblica per la Russia in India.

Negli ultimi dieci anni si è assistito al ritorno della Russia in Medio Oriente, e l’operazione è riuscita molto bene. La Russia è ora l’unica grande potenza che dialoga con tutti i Paesi della regione, sia quelli a guida sunnita, che quelli a guida sciita. Questa buona ‘coltivazione’ dei Paesi del Medio Oriente ha dato i suoi frutti fin dallo scoppio della guerra Russia-Ucraina. Anche i fedeli alleati degli Stati Uniti -Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Israele- non hanno imposto sanzioni alla Russia. «Israele, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti si sono tutti, «a modo loro, coperti, rivelando la misura in cui Washington ha perso la loro fiducia e rivelando la misura in cui sono disposti a rischiare qualche danno, o erosione, alle relazioni reali speciali al fine di proteggere ciò che hanno sviluppato in termini di diversificazione strategica, compreso il contatto con Russia e Cina», come afferma Hussein Ibish, ricercatore senior presso l’Arab Gulf States Institute di Washington. Ibish ha affermato che questi governi sono gradualmente giunti alla conclusione, nell’ultimo decennio, che «l’era degli Stati Uniti è finita, la rapida transizione verso un mondo multipolare è in corso ed è irreversibile» e il Medio Oriente lo ha capito molto bene. La crisi, per molti versi, è diventata unpunto di svolta nelle relazioni della regione con gli Stati Uniti, ha sottolineato Ibish.

Negli ultimi anni la Russia ha fatto ritorno anche in Africa, lo ha fatto anche con il gruppo mercenario Wagner, che si è messo a disposizione di alcuni dei più importanti Presidenti di Paesi in conflitto. Senza contare che, come si fa notare da parte degli analisti, in molti Paesi africani, la Russia è vista come l’erede di quella Unione Sovietica che li ha sostenuti durante le loro lotte anticoloniali. E, come in Medio Oriente, l’ostilità verso gli Stati Uniti gioca un ruolo non secondario nell’influenzare le opinioni pubbliche e delle leadership africane sull’invasione. Per tutto ciò, nessun Paese africano ha imposto sanzioni alla Russia, -che, tra l’altro, negli ultimi anni è emersa come il più grande esportatore mondiale di armi verso l’Africa-, piuttosto in Africa e in alcune aree asiatiche è cresciuta la preoccupazione per i costi delle sanzioni che si riverseranno su di loro, a partire dalla crisi alimentare che aumenterà fame e instabilità all’interno dei loro Paesi.

Se non c’è nulla di cui sorprendersi nel fatto che Cuba, Venezuela e Nicaragua abbiano sostenuto Mosca, diverso è per il Brasile e più ancora per il Messico. Il Presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha visitato Putin a Mosca poco prima dell’invasione e si è dichiaratosolidale con la Russia‘. Il Messico si è rifiutato di far parte del fronte nordamericano con gli Stati Uniti e il Canada nel condannare e men che meno sanzionare Mosca. Il partito Morena del Presidente Andrés Manuel López Obrador ha persino lanciato a marzo un Caucus dell’amicizia tra Messico e Russia nella camera bassa del Congresso del Paese. Il comportamento di Brasile e Messico in parte troverebbe giustificazione in motivazioni di natura economica -il Brasile dipende dai fertilizzanti russi per la sua poderosa economia agricola, per esempio-, per il resto si spiegherebbe nel tradizionale antiamericanismo latinoamericano, proprio della sinistra anni ’70 ma non solo -nè Bolsonaro, né Obrador sono uomini di sinistra, anzi.

Insomma, il mondo non-occidentale, il ‘Resto’, come lo definisce Angela Stent, senior fellow presso la Brookings Institution, si è dunque chiamato fuori dall’azione contro la Russia. Una dimostrazione plastica di un mondo che già ha introiettato l’idea di una nuova era.
Di più:
per gran parte del mondo Putin non è un paria, anzi. IlRestonon è convito che l’aggressione della Russia sia ingiustificata, né tanto meno si fa convincere all’idea che la Russia sia da punire per l’attacco all’Ucraina.
Si potrebbe anche dire in altri termini, quelli usati da Papa Francesco:
ilRestorileva l’oggettività dell’«abbaiare della Nato alla porta della Russia»e ritiene che l’«ira» della Russia, fosse pure che non sia stata «provocata, ma facilitata forse sì».

Il ‘Resto’, si fa rilevare, rappresenta «più della metà della popolazione mondiale, ma è la metà più povera, composta da molti Paesi meno sviluppati». Per tanto, secondo questi studiosi «il PIL, il potere economico e il peso geopolitico combinati dell’Occidente superano di gran lunga l’influenza di quei Paesi che si sono rifiutati di condannare l’invasione o di sanzionare la Russia». PIL a parte, anche quello comunque in procinto diimportanti cambiamenti, il peso geopolitico dell’Occidente non è detto che al termine della guerra ucraina sia quello ante 24 febbraio. Se c’è da credere che «le attuali divisioni tra l’Occidente e ilRestodaranno forma a qualunque ordine mondiale emergerà dopo la fine della guerra», c’è altrettanto da credere cheper definire il peso geopolitico dei due blocchi si debba attendere la fine della guerra.

Putin non solo non è isolato, ma, retorica russa a parte -per quanto questa riesca inquinare e finanche ‘sporcare’ il tutto-, questo conflitto potrebbe raggiungere l’obiettivo del documento del 4 febbraio: realizzare una leadership globale alternativa. E’ attorno all”impegno a respingere l’egemonia occidentale’, a creare l”ordine globale post-occidentale’, che si ritrova unito il mondo ‘non occidentale’.
C’è chi in questi giorni ha ricordato che lo storico Edward Mortimer ha scritto: «
Una guerra mondiale è come una fornace, fonde il mondo e lo rende malleabile», portando a grandi cambiamenti nell’ordine successivo. Catalogabile o meno come terza guerra mondiale, la guerra ucraina potrebbe essere davvero una fornace. «Molte persone hanno iniziato a parlare dell’invasione dell’Ucraina in questi termini, comeun portale verso un nuovo, anche se non ancora definito, ordine globale», afferma Howard W. French, professore alla Columbia University Graduate School of Journalism, corrispondente estero di lungo corso nonchè editorialista di ‘Foreign Policy‘. «Pochi, tuttavia, hanno iniziato ad affrontare con serietà di intenti o urgenza, il lavoro incompiuto dei grandi riordini del XX secolo, che hanno lasciato completamente fuori dai giochi le persone del terzo mondo. Questo può essere giustificato sulla base della civiltà o della razza? O è una questione di pura ricchezza o di puro potere in cui la forza è autorizzata a rimediare? Mettendo da parte la moralità, pochi dei grandi problemi che affliggono la vita umana in questo secolo sono suscettibili di essere gestiti bene sulla base dell’esclusione su una scala come questa: non prosperità e disuguaglianza, non riscaldamento globale, non migrazione, nemmeno guerra e pace».

Il ragionamento di Howard W. French conclude una curata analisi, condotta attraverso la puntigliosa ricostruzione storica, del ruolo e della debolezza delle organizzazioni espressione della comunità internazionale, leggasi Nazioni Unite, che in questa guerra stanno dimostrando tutta la loro quasi inconsistenza -il viaggio, scorsa settimana, del Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, in Ucraina ne è la dimostrazione più evidente.
La comunità internazionale, l’ONU nello specifico, è il secondo elemento di questodopoche è in fase di amalgama.
La guerra in Ucraina ha riportato in auge le critiche circa la disfunzione delle Nazioni Unite, che si sono scontrate contro l’ostacolo scritto nella sua stessa carta, afferma French: «la Russia, come l’Unione Sovietica prima di essa, è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU e, in quanto tale, gode del potere di veto, permettendole di bloccare qualsiasi misura che disapprova». Da anni si cerca di riformare questo organismo, ma oltre a fiumi di parole, nulla si è riuscito fare. French mette
in relazione la criticità insita nel DNA delle Nazioni Unite con i due blocchi contrapposti di cui sopra, ovvero Occidente eResto‘, questi frutto, secondo lo studioso, proprio di quella disfunzione. E per arrivare alla radice bisogna ritornare indietro di molto tempo. French parla di «un’infrastruttura politica internazionale che fin dal suo inizio,all’inizio del 20° secolo, ha consegnato le Nazioni di quello che è stato a lungo conosciuto come ilterzo mondoa uno status di seconda classe, o ciò che lo storico indiano Dipesh Chakrabarty ha chiamato ‘l’immaginaria sala d’attesa della storia’».
Si torna indietro nel tempo fino al Trattato di Versailles, che alla fine portò alla formazione della Società delle Nazioni. «La Società delle Nazioni ha fallito per molte ragioni, non ultimo il fatto che gli Stati Uniti, uno dei primi sostenitori di un nuovo sistema di governance internazionale, non si sono mai uniti all’organizzazione». La Società delle Nazioni ha dato potenti avalli all’imperialismo occidentale, garantendo ai Paesi europei l’autorità di estendere il loro controllo su ampi tratti di territorio con il pretesto dei cosiddetti mandati della Lega». Una
Società delle Nazioni assolutamente deferente al razzismo e alla supremazia bianca, praticata anche dagli Stati Uniti, oltre che dalla Gran Bretagna. Tra i primi Paesi a disagio, la Cina e il Giappone, i quali avevano entrambi motivi «per sentirsi diseredati dalla diplomazia internazionale dell’epoca, ma per quanto gravi fossero, le umiliazioni che subirono erano di natura categoricamente inferiore rispetto agli insulti inflitti a una grande schiera di terre allora ancora colonizzate». Il continente africano è stato, secondo lo studioso, la vera vittima di questa diplomazia.
«Le colonie africane avevano appena fornito centinaia di migliaia di truppe e un inestimabile sostegno economico ai loro padroni europei durante la prima guerra mondiale, e il ritorno dei veterani africani chiedeva a gran voce l’indipendenza. In risposta, le potenze europee hanno sostenuto che gli africani non avevano ancora raggiunto un livello di civiltà richiesto per iniziare a contemplare l’autogoverno».
Per i decenni a venire, «le potenze europee imposero brutalmente il lavoro forzato alle loro colonie africane per garantire alti tassi di produzione delle materie prime ambite, come gomma e cotone».
Passano gli anni e si arriva alla fine della seconda guerra mondiale. Si presenta la nuova«grande opportunità per una comunità internazionale guidata dall’Occidente di introdurre più democrazia ed equità nella governance globale». Promesse, parole, alta retorica riversata nella Carta Atlantica e nulla di altro. «Roosevelt non ha perso tempo all’indomani della Carta, dicendo che le promesse fatte ai colonizzati erano ambiziose, semplicemente ‘pronunciazioni’ che avrebbero dovuto aspettare», prosegue Howard W. French. «Nel giro di pochi anni, la natura a doppio binario del mondo in costruzione sarebbe diventata del tutto evidente». E mentre gli Stati Uniti riversavano miliardi di dollari nella ricostruzione delle economie europee devastate dalla seconda guerra mondiale, lasciavano irrisolti -e tali ancora restano- gli obblighi non riconosciuti dell’Occidente nei confronti dei Paesi appena decolonizzati. Il «saccheggio dell’Africa degli esseri umani ha creato quello che chiamiamol’Occidente‘».
Ammette Howard W. French: «
ad alcuni può sembrare storia antica», ma non lo è, perchè questa storia è insita nel DNA della così detta comunità internazionale come oggi è e agisce attraverso l’ONU. «L’attuale struttura delle Nazioni Unite, la cui impotenza di fronte a un orrore morale come l’Ucraina alcuni oggi lamentano, è depositata nei diritti speciali di pochi eletti attraverso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questa disposizione è poco diversa dalle argomentazioni dell’era wilsoniana secondo cui i colonizzati non erano sufficientemente civilizzati per ottenere i pieni diritti. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stato in una certa misura democratizzato dall’ingresso della Cina come membro permanente nel 1971. Oltre alla Cina, le cui dimensioni rendevano difficile negarlo, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è composto principalmente da Nazioni bianche la cui storia è legata al dominio imperiale. Gli Stati Uniti sono l’unico con una popolazione molto numerosa, attualmente il terzo nel mondo. La Russia, la cui economia è all’incirca delle dimensioni di quella italiana, uscirà presto dalla top ten dei Paesi più popolosi. Francia e Gran Bretagna sono molto indietro. Dov’è l’India? Dov’è l’Africa?, la cui Nigeria dovrebbe avere più cittadini degli Stati Uniti entro la metà di questo secolo e probabilmente seguirà solo l’India e la Cina entro il 2100. Dov’è il Brasile, il Messico o l’Indonesia?».

E’ difficile immaginare come il dopo potrà risolvere questa situazione, almeno quanto lo è immaginare che tale situazione possa persistere senza porre le basi per una instabilità permanente con movimenti tellurici che scuotono la crosta dei rapporti tra i popoli.

Terzo e ultimo elemento caratterizzante ildopo‘:la deglobalizzazione. O meglio quella che Edward Alden, visiting professor presso la Western Washington University e senior fellow presso il Council on Foreign Relations, definisce come ‘il pericoloso nuovo consenso contro la globalizzazione‘.
I critici della globalizzazione avevano avvertito: confini porosi, libero scambio e catene di approvvigionamento poco tese avrebbero reso il mondo più fragile, lasciando i Paesi pericolosamente vulnerabili a interruzioni e shock. «Ora che le interruzioni si stanno accumulando una sull’altra, un nuovo consenso ha preso piede nelle economie avanzate del mondo:
è tempo di deglobalizzare. La strada ora è controllare i confini in modo più rigoroso, costruire catene di approvvigionamento resilienti, perseguire l’autosufficienza nelle tecnologie critiche e infliggere sanzioni commerciali agli avversari indipendentemente dalle regole commerciali globali», afferma Alden.
Una considerazione che trova immediata conferma sulle due sponde dell’Atlantico.
Intervenendo all’Atlantic Council, il Segretario USA al Tesoro,
Janet Yellen, ha descritto come la guerra potrebbe creare cambiamenti fondamentali nell’ordine economico mondiale che privilegiano le preoccupazioni per la sicurezza rispetto all’integrazione economica.
Quasi contestualmente è intervenuta anche il capo della BCE,
Christine Lagarde, la quale ha affermato che la guerra potrebbe essere un punto di svolta economico, guidando il passaggiodall’«efficienza economica alla sicurezza e dalla globalizzazione alla regionalizzazione».
Edward Alden mette in guardia contro questo pensiero che si sta affermando.
La deglobalizzazione, dice, «ha la sua lunga lista di costi e pericoli, dall’aumento dell’inflazione e dalla carenza di manodopera, al protezionismo in ripresa e agli shock per il sistema finanziario globale. È necessaria una vigorosa opposizione per evitare tali costi e aiutare i governi a schivare le versioni più estreme della disintegrazione».
Janet Yellen gli fa eco quando delinea una più profonda riconsiderazione di ciò che il conflitto con la Russia può significare per l’ordine economico mondiale. «Andando avanti sarà sempre più difficile separare le questioni economiche… dalla sicurezza nazionale», e ha delineato un nuovo approccio statunitense al commercio basato non sull’integrazione o sulla crescita economica, ma su un nuovo concetto di commercio «libero ma sicuro», che cercherebbe di riorganizzare le catene di approvvigionamento globali attorno all’«affidamento agli amici», a un insieme limitato di fidati Paesi amici. E’ l’approccio ‘friendshoring‘, ovvero una delle possibili declinazioni della deglobalizzazione.
Yellen lo dice quando afferma che la «
disponibilità del mondo ad abbracciare un’ulteriore integrazione economica» con la Cina è condizionata dalla risposta della Cina all’invasione russa dell’Ucraina. La realtà con la quale questa condizione deve fare i conti, affermano gli osservatori, è che l’integrazione economica cinese è un dato di fatto incontrovertibile: la Cina è ora il principale partner commerciale per i manufatti di quasi due terzi delle 195 Nazioni del mondo, comprese molte delle economie più grandi e dinamiche. «Un approccio statunitense all”affidamento agli amici’ che cerchi di creare catene di approvvigionamento che escludano in modo completo sia la Russia, uno dei maggiori esportatori di materie prime del mondo, sia la Cina, la potenza manifatturiera più significativa del mondo, potrebbe avere profonde implicazioni per l’economia mondiale».Yellen riconosce l’ostacolo e i costi che derivano dal tentativo di superarlo, quando afferma che nel reindirizzare le catene di approvvigionamento attraverso un insieme più limitato e ristretto di alleati degli Stati Uniti «potrebbero esserci dei costi da sostenere e un’inflazione permanentemente più alta, costi locali un pò più alti, un po’ meno sistema efficiente, ma più resiliente».
Lagarde è esplicita circa i costi derivanti da un ordine internazionale più frammentato come descritto da Yellen, affermando che «
il prezzo di una maggiore sicurezza potrebbe in linea di principio assumere la forma di una minore condivisione del rischio internazionale e maggiori costi di transizione».
A lungo termine, sostiene Marcus Stanley, Advocacy Director del Quincy Institute for Responsible Statecraft, «
la posta in gioco è la misura in cui gli Stati Uniti sposteranno la loro posizione di leadership nell’economia globale da una posizione espansiva, mirata all’integrazione economica globale, a una volta a creare e promuovere una coalizione commerciale più segregata di alleati degli Stati Uniti».
L’integrazione economica ha contributo alla stabilità globale. Ora, prosegue Stanley, «
potremmo entrare in una nuova era, in cui l’obiettivo della politica economica statunitense si sposta dall’integrazione alla disintegrazione e la sicurezza degli Stati Uniti è definita in termini di protezione dalle reti economiche di potenziali rivali piuttosto che promuovere un ordine economico globale unificato sotto leadership statunitense».

La globalizzazione «è solo la traduzione giuridica ed economica di un progetto politico lungo cinque secoli: quello della pace attraverso il commercio, il ‘Wandel durch Handel’ al centro della politica estera europea», afferma Fabien Bottini, docente di diritto pubblico all’Università di Le Mans e membro senior dell’Institut Universitaire de France, studioso delle trasformazioni del diritto pubblico indotte dalla razionalità economica dall’inizio degli anni ’80. Un ‘progetto’, quello della globalizzazione, che «si basa su una certa memoria della pax romana, la pace romana dell’antichità. Abbozzato nel 1623 da Emeric de la Croix in ‘Le nouveau Cynée‘, da allora ha avuto la tendenza a fare dell’interdipendenza economica delle Nazioni il mezzo per prevenire le guerre tra Stati».
Malgrado le molte crisi, le molte difficoltà, i molti limiti e problemi insiti nell’interdipendenza economica, la globalizzazione ha funzionato, e prima del 24 febbraio l’ambizione era l’implementazione. La guerra ad alta intensità condotta oggi in Ucraina, afferma Bottini, «riflette il rifiuto, tanto brutale quanto improvviso, da parte della Russia -Stato continentale, l’undicesima potenza economica del pianeta- delle regole del gioco internazionale... con il rischio che la seconda potenza mondiale, la Cina, ne segua l’esempio. Comprendiamo quindi meglio la posta in gioco di questaguerra economica totaleche l’Unione Europea e gli Stati Uniti stanno conducendo contro la Russia e il continuo inasprimento delle sanzioni economiche che ne derivano con l’avanzare del conflitto: l’8,5% del PIL che dovrebbero, secondo il FMI, costare al Paese nel 2022, costituiscono una prova a grandezza naturale dell’efficacia del progetto di pace attraverso il commercio. Dal loro successo o fallimento dipenderà un nuovo avanzamento della globalizzazione in una direzione più in linea con il progetto originario dei promotori della pace attraverso il commercio o meno».

Mentre Bottini lascia ancora una chance alla globalizzazione, ammette anche che analisti e osservatori tra i più attenti ne hanno già decretato la fine. Per Larry Fink, il leader del più grande fondo di investimento del mondo, BlackRock, la conclusione è chiara: «Siamo alla fine della globalizzazione economica come l’abbiamo vissuta per trent’anni». Il politologo americano Fareed Zakaria afferma: la guerra in Ucraina segna la fine della pax americana che si è imposta gradualmente dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’inizio degli anni ’80. «Il commercio sembra preannunciare un mondo diviso in due o tre blocchi regionali con i propri interessi», conferma Bottini. «Occorre quindi riconnettersi con l’ambizione di ristrutturare il progetto di pace attraverso il commercio, individuando le scelte politiche che lo hanno fatto deragliare dal 1938, evitando gli errori del passato, e integrando le nuove sfide del nostro secolo – a cominciare dalla sfida climatica».

L’obiettivo più grande dovrebbe essere quello di sollevare domande, «presto e spesso, sui costi della deglobalizzazione», conclude la sua riflessione sui rischi e costi della deglobalizzazione Edward Alden. «Il mondo a venire potrebbe essere più resiliente, ma sarà anche più povero, meno innovativo, più diviso e più incline al conflitto. I critici della globalizzazione hanno svolto un ruolo prezioso per decenni, anche se sono stati per lo più ignorati, puntando i riflettori sul pio desiderio delle cheerleader. Ora i ruoli sono stati invertiti».

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