Non si placa il confronto commerciale ingaggiato dall’amministrazione Trump con la Cina. Nei giorni scorsi, il presidente degli Stati Uniti ha infatti annunciato l’innalzamento delle tariffe dal 25 al 30% su 250 miliardi di dollari di prodotti cinesi, mentre sui ‘rimanenti’ 300 miliardi di dollari di merci esportate da Pechino verso gli Usa l’incremento toccherà quota 15 e non 10% come precedentemente dichiarato. Il provvedimento di Washington nasce in risposta alla decisione dell’apparato dirigenziale dell’ex Celeste Impero di imporre nuove tariffe su 75 miliardi di dollari di prodotti statunitensi, che a detta di Trump sarebbe dettata da «motivazioni eminentemente politiche».
Il tycoon newyorkese si è inoltre spinto ad invocare l’Emergency Economic Powers Act del 1977 per attribuirsi la facoltà di dare mandato alle imprese statunitensi di esplorare la possibilità di riorientare il proprio export verso mercati di sbocco alternativi a quello cinese.
Parallelamente, pochi giorni prima di recarsi a Biarritz per prendere parte al vertice del G-7, Trump è tornato alla carica anche nei confronti dell’Unione Europea, e della Francia in particolare, rilanciando la minaccia di imporre dazi sui vini francesi come ritorsione per la digital tax approvata dal Parlamento di Parigi lo scorso luglio, destinata a colpire soprattutto i colossi hi-tech statunitensi. Il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, dal canto suo, ha fatto sapere che se l’annuncio del governo di Washington dovesse assumere reale concretezza, l’Unione Europea non esiterà a «rispondere per le rime» imponendo a propria volta tariffe su decine di miliardi di dollari di prodotti statunitensi.
L’inquietudine dell’amministrazione Trump scaturisce dal continuo peggioramento del passivo nella bilancia commerciale statunitense; gli Stati Uniti detengono ormai da molti anni il poco onorevole ‘titolo‘ di ‘compratori di ultima istanza‘, essendosi trasformati nel principale mercato di sbocco in cui cinesi, europei e giapponesi (tra gli altri) riversano decine di miliardi di dollari di merci. I dati parlano chiaro: nel 2018, il deficit si è attestato a quota 420 miliardi di dollari nei confronti della Cina, di 67 miliardi con il Giappone e di 169 miliardi nei confronti dell’Unione Europea. Nello specifico, il disavanzo ha toccato i 68 miliardi con la Germania, i 32 con l’Italia e i 16 con la Francia. E nonostante le tariffe imposte nel corso dei mesi, lo scorso luglio il passivo con l’estero per beni e servizi è cresciuto di oltre 23 miliardi di dollari rispetto al luglio 2018: un incremento del 7,9%. Segno che l’export statunitense sta diminuendo molto più rapidamente del loro import.
E le importazioni di prodotti stranieri avvengono completamente a debito, sul quale gli Stati Uniti pagano interessi crescenti – passati da 451 a 523 miliardi di dollari tra il 2008 e il 2018 – che vanno ad arricchire gli investitori esteri. A giugno, i Paesi stranieri detenevano complessivamente titoli Usa per ben 19.400 miliardi di dollari. I principali detentori di Treasury Bond sono proprio Giappone e Cina, ma in posizioni di rilievo si trovano anche Francia e Germania. Paese, quest’ultimo, che paga sui Bund interessi negativi e per il quale gli Usa costituiscono per giunta il principale mercato per investimenti di portafoglio. Il tutto mentre la Bank of Japan prosegue con la sua politica di tassi a zero
La conseguenza di questo enorme sbilanciamento è certificata dal fatto che gli Stati Uniti hanno chiuso il 2018 con una posizione finanziaria netta verso il resto del mondo in negativo per 9,5 trilioni di dollari, a fronte dei 7,7 trilioni registrati a fine 2017. Il tutto mentre il debito federale continua inesorabilmente ad aumentare di anno in anno. Ragion per cui, come rileva l’economista Guido Salerno Aletta, «il malumore di Trump al G7, dovendosi incontrare con i leader di Paesi che sarebbero partner, ma che invece vendono tutti in America senza comprare altrettanto, è ampiamente giustificato».
In tale contesto, le dichiarazioni distensive per quanto concerne la ripresa delle trattative commerciali con Pechino pronunciate dal presidente Usa in occasione della riunione del G-7 si configurano pertanto come una mera ‘tregua tattica’ destinata a non apportare sostanziali alterazioni al quadro di fondo, che vede gli Usa contrapporsi in maniera sempre più dura ai loro partner commerciali.