Click, click, la pistola nella mano di Carmen fa cilecca, dal pubblico una signora commenta, ‘si vede c’ha ripensato!’ ma ormai il finale deve essere quello stabilito dal regista e così don Josè si accascia e finge di morire. Finisce così tra i fischi del pubblico, la prima di Carmen al Maggio Musicale, il cui finale rovesciato della scena madre, avrebbe dovuto trasformarsi in un gesto di rivolta, di reazione ai tanti femminicidi che insanguinano ben altre scene. Qualcuno commenta: ‘Dal melodramma alla farsa’. E’ finita così: applausi a cantanti e orchestrali, fischi e buu alla regia per il finale stravolto. Un’ accoglienza inattesa che sorprende lo stesso Direttore del Maggio Musicale Cristian Chiarot. «Non me l’aspettavo finisse così. Le due prove generali erano andate bene, la nuova versione era stata accolta serenamente, in un’atmosfera rilassata, pronta ad accettare la nuova proposta».
Del resto, l’idea di proporre un qualcosa di diverso, più rispondente ai tempi nostri, era stato lui stesso ad esporla al regista Leo Muscato. Il Direttore era partito da queste premesse: «il teatro deve far sì divertire, ma anche fornire spunti di riflessione. Quale è lo spirito odierno della Carmen? Deve rimanere sempre un’opera folkloristica, spagnola, gitana, legata all’800? Perciò ho chiesto a Muscato di valutare se si poteva fare qualcosa». La risposta è stata: «Porteremo in scena un Bizet attuale, toglieremo una visione ottocentesca di donna oggetto e in qualche modo colpevole, proporremo sottotraccia un significato attuale – spiega Muscato – D’altra parte credo che ogni classico sia tale se riesce a parlare in modo diverso e attuale a spettatori diversi di epoche diverse».
‘Carmen non muore’ era stato preannunciato. ‘Reagisce ai colpi di don Josè, si difende’, come fanno sempre più le donne oggi nel mondo. La sua intenzione era quella di trasformarla in un simbolo del riscatto delle donne contro la crescente ondata di femminicidi e di violenze subite. Intento nobile, tant’è che dopo la prova generale, proprio nella caffetteria del teatro, trenta protagoniste della politica e della cultura, si erano ritrovate, indossando un nastro rosso, per leggere ciascuna testi poetici e testimonianze ispirate al tema. Un solo uomo tra loro, Paolo Klun , responsabile della comunicazione del teatro. Carmen sembrava potesse divenire il simbolo del riscatto contro la crescente violenza: “basti pensare che – ricordava la presidente del Tribunale Marilena Rizzo – nell’ultimo anno le condanne per reati di violenza sulle donne, sono aumentate del 158%”.
La notizia di una Carmen che non muore, aveva suscitato viva attesa e clamore. Anche sulla stampa estera. Suscitando, com’era prevedibile, stupore approvazione e dissensi. Consapevole dell’azzardo, Leo Muscato ha cercato di individuare nell’opera stessa le ragioni del suo intervento: sembrava che quest’opera fosse stata ambientata in un campo rom. Ed è in un campo nomadi degli anni ’80, tra scassate roulottes, filo spinato e poliziotti in tenuta antisommossa, che l’ha voluta ambientare. Inoltre, ha detto, “la Siviglia esotica raccontata da Bizet non c’è più. Dunque, anche quell’atmosfera andava cambiata. Per il resto– ha dichiarato – non ho modificato niente, né una parola, né sostituito una nota.. “.
Queste dunque le premesse. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: quello rappresentato dalla creatività artistica. Che non è cosa che si trova sempre dietro l’angolo Ma qual è il giudizio della critica? Lo chiedo al critico musicale e teatrale Giovanni Gavazzeni:” Mi trovavo a teatro alla ‘prima‘ e ho visto la reazione del pubblico: fischi e rumori nei confronti della messinscena e applausi a orchestrali e interpreti. La protesta era generale, non di una parte del pubblico. Generale. Che dire? E’ comprensibile. Non si stravolge un capolavoro come l’opera di Bizet, per ragioni contingenti, che prescindono dal significato simbolico dato dallo stesso Bizet a Carmen, che ne fece il simbolo della donna che riafferma il proprio diritto alla libertà d’amare, alla propria indipendenza, che perseguirà fino all’estremo sacrificio. E’ questo il suo destino. Senza il quale non sarebbe divenuta un mito universale, di libertà, indipendenza e ribellione. Selvaggia e senza legge. Non ho gradito neanche quella scena fissa, immobile, con quelle roulottes – vivono così oggi i ron? – senza gli esotismi che pure segnavano l’atmosfera cara a Bizet e alla gente del suo tempo. Il teatro è una continua reinterpretazione, ma innanzitutto vi deve essere il rispetto per il compositore, è la sua visione, la sua idea che deve essere approfondita e saputa riproporre. Perché allora non cambiare anche il testo e la musica? Non si può. Certo che non si può. Perché non fare allora altri lavori che abbiano dignità artistica ispirati ai temi che si vogliono trattare? La questione non è tra puristi e innovatori. Ma tra arte e non arte. Ma perché non si discute di questo? Oggi vedo che si attualizza tutto, si riduce tutto all’osso, anche per contenere i costi o, si dice, per attrarre i giovani. Ma dov’erano i giovani alla “prima”?”.
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