martedì, 21 Marzo
HomePoliticaGran Bretagna: la campagna elettorale ai tempi del terrorismo

Gran Bretagna: la campagna elettorale ai tempi del terrorismo

La coalizione araba contro il Qatar

Dopo l’attacco di ieri sera contro il London Bridge e Borough Market, la Gran Bretagna si è svegliata ferita per la terza volta in soli tre mesi.
Oggi, dopo il bilancio (sette morti, trentasei feriti), è il momento delle indagini e delle polemiche.
Sul fronte delle indagini, si sta tentando di capire se i tre attentatori abbiano agito da soli o si siano avvalsi di una rete più ampia di fiancheggiatori: la polizia britannica sostiene di conoscere già l’identità dei tre terroristi, tutti morti nell’attacco, ma di non divulgarla per non rischiare di mettere in allarme eventuali sostenitori del gruppo terroristico. A quanto pare, però, uno dei terroristi era già noto alle forze dell’ordine ed era addirittura comparso in un servizio televisivo sulla presenza di fondamentalisti islamici sul territorio britannico. Al momento la polizia avrebbe arrestato circa dodici persone sospettate di aver aiutato in vario modo il gruppo terroristico.
Le polemiche, invece, si legano alla campagna elettorale in corso: l’8 giugno, infatti, la Gran Bretagna andrà al voto in una tornata di elezioni anticipate indette dal Primo Ministro, Theresa May.
La May, infatti, forte dei sondaggi estremamente favorevoli di poco tempo fa, contava di rafforzare molto il proprio Governo in vista delle trattative con l’Unione Europea nell’ambito del processo di separazione tra Londra e Bruxelles.
Il vantaggio nei sondaggi, che fino a poche settimane fa sembrava incolmabile, si è rapidamente ridotto in favore dei laburisti di Jeremy Corbyn: attualmente, i conservatori sono dati attorno al 45% contro il 34% dei laburisti. A conti fatti, i conservatori di Theresa May restano in vantaggio, ma rischiano di ritrovarsi con un vantaggio addirittura inferiore a quello attuale.
Con queste premesse, l’attentato i London Bridge e Borough Market ha spinto la May a chiedere ancora una volta agli elettori un mandato forte, sia contro il terrorismo che nell’ambito dei trattati per la Brexit. Le sue affermazioni hanno però scatenato ancor di più la polemica: prima di divenire Primo Ministro, Theresa May è stata Ministro dell’Interno per ben sei anni (si tratta del Ministero dell’Interno più lungo della storia inglese) durante i quali ha imposto molti tagli alle forze dell’ordine del Paese. Questo ha portato sia il diretto sfidante, Jeremy Corbyn, sia il liberal-democratico Tim Farren, a chiedere le dimissioni del Primo Ministro.
È altamente improbabile che un Primo Ministro rassegni le dimissioni a tre giorni dalle elezioni: l’8 giugno vedremo quale sarà il giudizio dei britannici sull’operato di Theresa May.

L’altro fronte caldo della giornata è quello del Qatar.
Oggi i Governi di Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Yemen hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Doha. A questi sono seguiti, il Governo libico di Tobruk, vicino all’Egitto, e quello delle Isole Maldive.
L’accusa è di sostenere e foraggiare gruppi terroristici islamici e di diffonderne le idee tramite la propria emittente al-Jazira: tra i gruppi finanziati ci sarebbero i Fratelli Mussulmani, i miliziani del califfato di Daesh, al-Qaeda e gruppi sciiti legati all’Iran, oltre alle milizie Houthi che da circa tre anni occupano la capitale yemenita Sanaa.
La chiusura delle relazioni diplomatiche, comporta un forte isolamento per il Paese, in primo luogo perché il confine con l’Arabia Saudita rappresenta l’unico collegamento con la terra ferma per la penisola del Qatar, in secondo luogo perché oltre alla fine dei rapporti diplomatici e alla chiusura della frontiera con Riad si avrà anche la sospensione di tutti i collegamenti marini ed aerei con Doha, in fine perché alcuni Paesi interessati starebbero pensando di bandito i cittadini qatarini costringendoli ad abbandonare il proprio territorio.
Il Governa del Qatar ha espresso rammarico per la decisione e ha affermato che le accuse di sostegno al terrorismo sono prive di qualsiasi fondamento.
Rammarico è stato espresso anche dal Governo turco che ha invitato tutti a ripensare alla propria decisione di isolare Doha e ad unirsi nel nome della pacificazione dell’area. Parole ancora più dure sono giunte da parte dell’Iran che ha accusa i Paesi della coalizione anti-Qatar di essere stati guidati dagli Stati Uniti: la rottura diplomatica con Doha sarebbe una diretta conseguenza della visita di Donald Trump a Riad.
Più cauta è la posizione della Russia: il Governo di Mosca ha dichiarato che, se da un lato, farà accurati accertamenti sulla natura delle accuse contro il Qatar, dall’altro ha intenzione di collaborare con tutti affinché si possa giungere al più presto ad una pacificazione dell’intera area mediorientale. Una posizione simile è stata espressa dal Governo Cinese.
La posizione più difficile è quella degli Stati Uniti. Se sembra possibile che, durante l’incontro di Riad, i rappresentanti di Arabia Saudita ed Egitto abbiano parlato con Trump della questione, resta un problema strategico fondamentale: in Qatar ha sede la più grande base militare statunitense dell’area mediorientale. Si tratta della base di al-Udeid che è stata fondamentale per le incursioni aeree contro il califfato in Siria ed Iraq: se i membri della coalizione araba non troveranno un accordo, l’utilizzo della base potrebbe divenire del tutto inutile. Non è un caso che il Segretario di Stato, Rex Tillerson, ha esortato i contendenti a sedersi attorno ad un tavolo per trovare un compromesso e giungere ad un chiarimento.

Negli Stati Uniti, mentre il Presidente Trump continua tramite i social network ad andare all’attacco dei media e dell’opposizione democratica e torna a chiedere un bando contro i viaggiatori che vogliono entrare negli States da alcuni Paesi considerati “pericolosi”, non si placa la bufera sul cosiddetto Russiagate. Oggi il Presidente russo Vladimir Putin ha bollato come sciocchezze tutte le voci sulle informazioni prese su Trump o su presunti interventi di pirateria informatica volti ad interferire con le elezioni presidenziali statunitensi: nonostante la netta presa di posizione di Putin, la situazione resta tesa. Il rapporto tra Trump e il suo genero e consigliere Jared Kushner non sembra essersi ripreso dallo strappo avvenuto durante il G7 di Taormina.
La rottura, oltre che alle indagini sul Russiagate, si sarebbe consumata anche sulla decisione del Presidente di fare uscire gli USA dagli accordi di Parigi sull’ambiente. Ma Kushner non è il solo a criticare la decisione di Trump: oggi il Segretario all’Energia, Rick Perry, ha dichiarato di essere rammaricato della decisione del Presidente e che, in ogni caso, gli Stati Uniti faranno il loro dovere per il bene del pianeta.
Inoltre, restano tesi i rapporti con la Cina in relazione alla sovranità delle isole Nansha, o Spratly (contese con le Filippine) e delle Diaoyu, o Senkaku (contese con il Giappone).

In Turchia, mentre continuano gli arresti contro gli oppositori del Governo (più di mille e duecento questa settimana), continua a deteriorarsi il rapporto tra Ankara e Berlino.
Dopo che il Ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ha insistito sull’impossibilità per i parlamentari tedeschi di visitare la base militare di Incirlik, dove è stanziato un contingente militare di Berlino, il Primo Ministro di Ankara, Binali Yldirim, ha annullato l’incontro previsto con Sigmar Gabriel, Ministro degli Esteri tedesco. Ankara pretenderebbe da Berlino che gli venissero consegnati molti cittadini turchi accusati di aver avuto parte o di aver sostenuto il tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016.

a una settimana dalle elezioni legislative, i cittadini francesi residenti all’estero hanno già votato: lo spoglio, ancora parziale, dà in vantaggio il partito del nuovo Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, La République En Marche. Il resto del Paese voterà il 18 giugno: a quel punto si vedrà se il progetto di Macron, che è riuscito ad aggregare attorno a sé una larga fetta della popolazione delusa dai vecchi partiti, sarà vincente anche nelle elezioni che decideranno la composizione del Parlamento.

In Messico, il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) del Presidente in carica, Enrique Peña Nieto, ha vinto alle elezioni nello Stato di Messico (lo Stato più popoloso della Federazione). Le opposizioni progressiste, però, hanno contestato i risultati della contestazione. Il PRI governa ininterrottamente il Messico da ottantasette anni.

RELATED ARTICLES

Croce Rossa Italiana

spot_img

Save the Children

spot_img

Seguici sui social

Fondazione Veronesi

spot_img

Fondazione G. e D. De Marchi

spot_img

Fondazione Veronesi

spot_img

Salesiani per il sociale

spot_img

Campus Biomedico

spot_img
Social Media Auto Publish Powered By : XYZScripts.com