lunedì, 20 Marzo
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Gaza e la minaccia Tassa Blu

Non esiste tregua per gli abitanti della Striscia di Gaza, luogo in cui la vita è una lotta quotidiana, con difficoltà e privazioni di ogni tipo. Non appena finita una crisi ne segue subito un’altra che getta la popolazione nel turbamento. L’ultima verificatasi è stata causata dall’aggravarsi del problema ricorrente dell’elettricità che covava sullo sfondo da diversi mesi ormai e che, adesso, minaccia l’enclave di un totale black out.

All’origine di questo spettro che aleggia all’orizzonte, c’è l’imposizione fatta a Ramallah, da parte del governo, di un’imposta chiamata «Tassa blu» sul gasolio prima della vendita a Gaza, che si aggiunge a quella del «valore aggiunto» che ammonta al 18% e a quella della «differenza» del 3%. Ne consegue che le autorità di Gaza dirette dal movimento Hamas devono pagare il petrolio a un costo più alto. Un costo che, secondo queste ultime, va ben oltre le loro possibilità finanziarie, tanto più che il 40% della popolazione non è in grado di pagare i propri conti a causa della povertà nella Striscia di Gaza, la stagnazione economica del territorio devastato dal susseguirsi delle guerre israeliane e dalla mancata riscossione, da mesi, dei salari dei funzionari dell’Autorità palestinese e di quelli del movimento islamista.

Di conseguenza i toni si accendono e le accuse e le invettive aumentano come nel periodo della divisione interpalestinese, mettendo ancora una volta in risalto le relazioni sempre più complicate tra l’Autorità palestinese e Hamas che fanno da sfondo all’attuale contenzioso.

I responsabili di Hamas definiscono la decisione immorale e accusano l’Autorità palestinese di essere «priva di umanità,  nazionalismo e di contribuire, alla stregua dell’occupazione israeliana, alla sofferenza degli abitanti di Gaza». Secondo il direttore esecutivo dell’Autorità palestinese dell’energia (APE) della Striscia di Gaza, Fathi al-Sheikh Khalil, uno dei responsabili del movimento islamico e dell’imposizione della Tassa Blu, Ramallah non ha esitato a ridurre la quantità di carburante destinato alla centrale elettrica davanti l’incapacità di pagare da parte della società elettrica di Gaza, facendo poco caso alle conseguenze che ciò avrebbe potuto avere sulla distribuzione di energia, limitata nuovamente a sei ore al giorno al posto delle 12 ore abituali di cui poteva beneficiare la popolazione quando la centrale funzionava a pieno regime. Il massimo di 12 ore è dovuto al venir meno di diverse turbine in seguito agli attacchi aerei dell’aviazione israeliana e alle restrizioni israeliane che limitano la quantità di carburante autorizzato a entrare a Gaza a 2 milioni di litri al mese per un fabbisogno di circa 13 milioni di litri mensili, dopo la presa di potere di Hamas di Giugno 2007.

Non è la prima volta che si verifica una crisi del genere. Gaza si trova periodicamente al buio in base ai conflitti con Israele, anche prima dell’ultima crisi. Gli abitanti non avevano altra scelta che gestire i tagli quotidiani. Adesso la situazione potrebbe peggiorare. La centrale, che fornisce il 30% del fabbisogno di energia elettrica dell’enclave palestinese, aveva già smesso di funzionare diverse volte, da una parte a causa dei raid e dall’altra a causa del blocco che provoca carenze ricorrenti di combustibile e, di conseguenza, interruzioni totali di corrente che potevano durare giorni o nel migliore dei casi raggiungere dalle 16 – 18 ore al giorno.

Ciò incide sulle famiglie, le scuole, gli ospedali e gli impianti di trattamento delle acque, in particolare, lasciando presagire conseguenti pericoli sanitari. Persino i gruppi elettrogeni e altri generatori di riserva, che solitamete si sostituiscono alla rete elettrica, non possono funzionare perché anche essi privati del prezioso carburante. È importante notare che la Striscia di Gaza è alimentata da tre fonti energetiche diverse: Israele, Egitto e la propria centrale. Tuttavia, le tre fonti offrono soltanto una copertura dell’80% del reale fabbisogno dell’enclave.

Nel 2006, la centrale è stata bombardata dall’aviazione israeliana in seguito al rapimento del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas. I danni del bombardamento non sono mai stati completamente riparati e si sono aggravati nel corso del tempo. La crisi elettrica si è oltremodo aggravata nel luglio 2013, quando le autorità egiziane del nuovo regime Al-Sisi hanno deciso di distruggere i tunnel alla frontiera con la Striscia di Gaza da cui il carburante era trasmesso per alimentare la centrale elettrica. Prodotto principale delle reti sotterranee, esso aveva pressocchè sostituito il carburante importato da Israele, molto più caro di quello egiziano, che ha permesso al movimento Hamas di fare un business molto lucrativo grazie al sistema di tasse che ha introdotto, quadruplicandone il prezzo a scapito delle autorità egiziane e degli abitanti di Gaza. A causa dell’ostilità di questo regime verso l’Hamas degli odiati fratelli musulmani, le cui leggi dichiarano terroriste, anche gli aiuti finanziari del Qatar che erano destinati all’acquisto del carburante e che, in passato, transitavano facilmente attraverso l’Egitto, adesso non ci sono più.

L’Egitto intende instaurare un sistema commerciale chiaro e legale sulla base di una tariffa internazionale attraverso il passaggio commerciale di frontiera israeliano di  Kerem Shalom verso Gaza.  Tuttavia, in base a questo nuovo sistema, la fattura si eleverà a decine di milioni di dollari al mese, senza alcuna contropartita per il movimento Hamas e questo è il punctum dolens della questione poichè le tasse prelevate nel punto di passaggio israeliano andranno nelle casse dell’Autorità palestinese in Cisgiordania, unico potere riconosciuto dallo Stato ebtraico e dalla comunità internazionale, e non in quelle di Hamas.

Secondo Fathi al-Sheikh Khalil, le sovvenzioni concesse dal Qatar per coprire il fabbisogno dei territori palestinesi non possono più bastare a causa della Tassa blu. «I 10 milioni di dollari del Qatar versati per il mese di gennaio 2015, sono stati stanziati al fine di permettere alla centrale elettrica di funzionare per un mese ma, a causa di questa tassa, la centrale ha potuto produrre elettricità soltanto per due settimane».

Per  Youcef Rizqa, ex consigliere politico del movimento islamista, il governo di Ramallah si era impegnato a non applicare la tassa dopo la recente aggressione israeliana, ma ha ritrattato per motivi politici che rientrano del quadro delle pressioni effettuate sui dirigenti di Hamas per portarli a fare delle concessioni. Accuse respinte dall’AP che, va ricordato, deve conformarsi al protocollo di intesa economica di  Parigi, firmato nel 1994 sulla scia degli accordi di Oslo.  Protocollo che specifica in maniera dettagliata le regole di funzionamento economico tra questa e le autorità d’occupazione, obbligandola, tra l’altro, ad acquistare il carburante direttamente da Israele o tramite i suoi rappresentanti ufficiali. In questo accordo Israele ha elaborato un sistema d’imposta che stabilisce, ad esempio, che l’IVA palestinese debba essere allineata a quella israeliana. Questa è una delle tante carenze che portano la maggior parte degli analisti a essere d’accordo nell’affermare che il protocollo di Parigi consacra la dipendeza dell’economia dei territori palestinesi a quella delle autorità d’occupazione israeliane.

«La tassa blu sui prodotti petroliferi è un apporto essenziale al governo di Ramallah e un riferimento indispensabile per compensare la differenza, alla luce della crisi finanziaria che soffre» spiega  Fouad Choubaki, Presidente dell’Autorità elettrica palestinese di Ramallah  che ha anche sottolineato che l’AP deve pagare a Israele e all’Egitto 16 milioni di dollari al mese, importo globale del consumo elettrico di Gaza.

Dal 3 gennaio 2015, Israele congela il trasferimento di diverse centinaia di milioni di euro di entrate fiscali destinate a Ramallah violando palesemente il Protocollo di Parigi sui rapporti economici, e questo come ritorsione alla richiesta dell’AP di aderire alla Corte penale internazionale (CPI)  e alla scelta del Presidente dall’Autorità palestinese,  Mahmoud Abbas, di firmare il Trattato di Roma.

Questa decisione arbitraria ha gettato l’AP in una crisi finanziaria gravissima che ne minaccia la sopravvivenza. Essa ha dovuto, ad esempio, chiedere un prestito a delle banche locali per potere assicurare il 60% del salario dei funzionari. Altro esempio della crisi è l’incapacità dell’AP di pagare le bollette dell’elettricità di diverse città Cisgiordane tra cui Naplouse e Jénine alle quali Israele ha tagliato la corrente parecchie volte questa settimane lasciandole al buio.

L’ente di distribuzione dell’energia elettrica ha sottolineato che «il debito accumulato dall’Autorità Palestinese ammonta a due miliardi di shekel», ovvero circa 450 milioni di euro.  Per i palestinesi non c’è alcun dubbio che si tratti di punizioni collettive politicamente motivate: Israele cerca di far crollare l’Autorità palestinese colpendone le finanze.

«Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu  vuole un’Autorità palestinese senza autorità e adesso trattiene i fondi delle tasse per farla crollare», ha dichiarato Saëb Erekat alla radio pubblica palestinese. «Questo denaro non è di Israele né si tratta di sovvenzioni internazionali», ha aggiunto appellandosi alla comunità internazionale di fare qualcosa di più che pubblicare comunicati che condannano la sanzione israeliana unilaterale, riferendosi alla casa bianca che si è detta «preoccupata riguardo la sostenibilità dell’Autorità palestinese se questa non riceverà rapidamente  i fondi» ma che non muove un dito per contrastare questa eventualità.

Gettando benzina sul fuoco, giorni fa, alcuni tribunali americani hanno condannato l’Autorità palestinese a pagare centinaia di milioni di dollari di danni e interessi alle vittime d’attentato o ai loro familiari.

 

Traduzione di Emanuela Turano Campello

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