L’Etiopia è, al momento, senza un Primo Ministro. O meglio, Haile Mariam Desalegn era il Primo Ministro dello Stato africano, ma si è dimesso. Specifichiamolo ancora: l’ex Primo Ministro Desalegn ha presentato le sue dimissioni, ma queste sono state congelate e quindi, momentaneamente, è ancora lui in carica. Questa situazione confusa riflette il caos e i tumulti che pervadono le strade della capitale Addis Abeba (e non solo) in questi ultimi anni e che sono il prodotto di un mosaico tanto affascinante quanto complesso di etnie, culture e relativi movimenti politici che va a comporre la popolazione etiope, amplificato dal malgoverno del dimissionario Desalegn.
In carica dal 2012, Desalegn è membro, con il suo partito (il Movimento Democratico Popolare dell’Etiopia del Sud) della coalizione di Governo denominata Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope, che racchiude i quattro grandi partiti suddivisi su base etnica: oltre al già citato partito del Primo Ministro, ci sono il Fronte di Liberazione del Popolo Tigrino, l’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo e il Movimento Democratico Nazionale Amhara. È, di gran lunga, la coalizione più influente dell’Etiopia, considerando che in Senato può vantare il 100% dei seggi. Questa maggioranza schiacciante non ha impedito, tuttavia, il formarsi di ondate di protesta con la richiesta di maggiori libertà, proveniente specialmente da gente appartenente alle etnie Oromo e Amhara, che compongono i due terzi della popolazione. A questi tumulti, il Governo ha risposto, a più riprese, con la dichiarazione dello stato d’emergenza, con il risultato di ridurre, ancora di più le libertà del popolo etiope, tanto che, il rilascio dei prigionieri politici approvato nel gennaio scorso aveva fatto credere che fosse finalmente iniziata una nuova fase di democratizzazione per l’Etiopia: il ritorno a casa dei prigionieri politici è stato per questo accompagnato da grandi ondate di giubilo. A questi rilasci, si è accompagnata la chiusura del carcere di Maekelawi, noto per le torture e per le condizioni disumane in cui versavano i prigionieri.
Le dimissioni di Desalegn sembravano confermare questa tendenza, ma il loro congelamento ha messo in dubbio l’effettività di questo processo, tanto che c’è chi parla di possibile colpo di Stato, prontamente smentito dall’attuale Ministro della Difesa, Siraj Fegessa. Quest’ultimo ha inoltre spiegato che, contestualmente a questo periodo di transizione (a cui non si accompagnerà un Governo transitorio), verrà nuovamente proclamato lo stato di emergenza, della durata massima di dieci mesi. Niente che in Etiopia non si sia già visto, insomma.
Ma a che cosa erano dovute le proteste? Il lungo dominio della coalizione di Governo, in carica senza interruzioni dal 1991, nasconde una frattura interna molto importante: la frangia tigrina, infatti, è quella politicamente più influente e potente, benché vada a rappresentare le istanze di un’etnica che va a comporre solo il 6% del totale dell’Etiopia, contro il 40% dell’etnia Oromo. C’è un netto squilibrio alla base del sistema politico. Oromo e Amhara denunciano la propria marginalizzazione a favore dei Tigrini, in un contesto economico già depresso: la svalutazione della moneta locale, il birr, non ha portato alla crescita delle esportazioni sperata; la disoccupazione giovanile è a livelli record, l’inflazione è alle stelle così come il debito pubblico, il che si innesta in un’endemica carenza di capitale straniero, che continua a calare data l’incertezza della situazione politica in Etiopia.
Ai fattori meramente economico-politici, vanno aggiunti anche quelli legati ai diritti: molti dei prigionieri recentemente liberati sono giornalisti, attivisti e oppositori politici, arrestati sulla base violazioni a tre leggi liberticide, come la ‘Proclamazione sulla libertà dei media e sull’accesso all’informazione’, la ‘Proclamazione sulle società e sulle associazioni benefiche’ e la ‘Proclamazione anti-terrorismo’, volte a soffocare, ognuna a suo modo, la libertà di espressione e di associazione.
Una svolta decisiva si è avuta quando l’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo, uno dei quattro partiti della coalizione di Governo, ha fatto sue le istanze di questa protesta, dando una voce e un corpo alle richieste della propria etnia di riferimento, tanto che, se la transizione verso la democrazia dovesse avere il seguito promesso e sperato, si pensa a un futuro Primo Ministro di etnia Oromo.
Due nomi circolano, su tutti: quello di Lemma Megersa, Presidente di Oromia (uno degli Stati federali in cui è suddivisa l’Etiopia) e l’altro è Abiy Ahmed, deputato del partito Oromo. La prima, molto popolare nella sua etnia, è il leader carismatico del suo partito, che ha incanalato tutte le tensioni presenti fra gli Oromo allo scopo di far diventare il suo movimento come quello più all’avanguardia sul fronte delle riforme. Ha affermato con determinazione l’importanza del popolo Oromo per il futuro dell’Etiopia: la sua etnia non deve più rimanere ai margini delle questioni politiche ed economiche dello Stato e deve far valere la sua maggioranza anche in ambito decisionale.
Tuttavia, la scelta di Megersa non sarebbe possibile, perlomeno nell’immediato futuro, non essendo deputata. Motivo per cui, se un Oromo ha da essere, potrebbe molto probabilmente essere Abiy Ahmed. Egli è meno carismatico della sua collega di partito, ma incarna perfettamente quella figura unitaria di cui avrebbe bisogno l’Etiopia. È di etnia Oromo, ma proviene da una famiglia cristiana e musulmana, parla perfettamente le tre lingue principali parlate dal popolo etiope ed è un eccellente comunicatore, oltre ad avere esperienza nell’esercito come tenente colonnello e ad aver conseguito un dottorato all’Università di Addis Abeba. Ci sono anche ombre nel suo passato: ha fondato un’agenzia di sicurezza, con il compito di sorvegliare le attività degli etiopi, specialmente i dissidenti politici, e ha contribuito all’espansione del sistema radiotelevisivo etiope negli anni in cui venivano emanate le leggi liberticide. Tuttavia, appare, ad oggi, come il miglior candidato Primo Ministro proveniente dall’etnia Oromo.
Le dimissioni di Desalegn possono essere il punto di svolta per l’Etiopia: se, come sembra, non dovessero rivelarsi un bluff, le tensioni di questi ultimi anni potrebbero sciogliersi. Non bisogna però illudersi che un semplice cambio di Governo possa immediatamente cambiare, per il semplice fatto di essere avvenuto, la disastrosa situazione in cui è venuto a trovarsi lo Stato etiope negli ultimi tempi. Oromo, Tigrini e Ahmara dovranno trovare le basi di un accordo per portare l’Etiopia sulla strada della democratizzazione.