La scorsa settimana ha visto sviluppi potenzialmente molto importanti in Etiopia. Prima, il 19 dicembre, l’annuncio che il capo delle forze del Tigray aveva ordinato ai suoi combattenti di ritirarsi nel Tigray. Poi, il 22 dicembre, il governo federale etiope ha annunciato di aver ordinato alle sue forze di non avanzare ulteriormente nella regione settentrionale del Tigray. “Per ora, alle forze etiopi viene ordinato di mantenere le aree controllate”, ha affermato Legesse Tulu, capo del servizio di comunicazione del governo.
Questi due annunci, possono far pensare ad un realistico spiraglio non solo per il cessate il fuoco, ma anche per l’apertura di negoziati per risolvere il conflitto. In questa direzione pare andare in particolare l’annuncio del governo che i suoi soldati non inseguiranno le forze del Tigray nella loro regione d’origine.
Molto probabilmente già in queste ore ci sono delle prese di contatto riservate per capire se è possibile addivenire ad un negoziato formale. Anche se, come sostengono alcuni osservatori, probabilmente nessuna delle due parti è davvero convinta fino in fondo sia suo interesse trattare.
Una fonte di alto livello governativo appartenente al Prosperity Party, il partito del Primo Ministro Abiy Ahmed, ha dichiarato a Crisis Group che ad Addis Abeba c’è voglia di fermare i combattimenti, «anche se le élite rimangono divise sulla via da seguire». La fonte, aggiunge il think tank, ha affermato che un processo di pace implicherebbe la ri-connessione del Tigray, che ora è tagliato fuori dagli aiuti, dal commercio e dai servizi federali vitali come le banche, dal resto dell’Etiopia. «Potrebbe anche significare riabilitare il TPLF, che il Parlamento ha dichiarato organizzazione terroristica a maggio, e possibilmente includerlo in un prossimo dialogo nazionale». Secondo questa fonte, «sempre più funzionari federali accettano la necessità di una soluzione politica piuttosto che militare. La loro preoccupazione è in parte non aggravare le sofferenze dei civili del Tigray e in parte non spingere ulteriormente il Tigray verso la secessione». Così, secondo la fonte, «c’è una reale possibilità che i colloqui inizino».
Crisis Group sottolinea come esistano certamente ancora ostacoli che sfidano la negoziazione.Ostacoli che si attestano sia sul fronte tigrino -all’interno del quale c’è ancora in molti la convinzione che la regione debba affrontare una minaccia esistenziale che viene dai suoi vicini-, sia sul fronte governativo -con il Primo Ministro pressato da coloro che vorrebbero chiudere definitivamente i conti con il Tigray People’s Liberation Front (TPLF – Fronte di liberazione del popolo del Tigray).
A tutto ciò si aggiunge un problema causato dal clima che si è venuto a creare attorno a questo conflitto.
Un tema quasi scabroso per l’opinione pubblica europea e americana, che è quello della ‘narrazione filo-tigrina‘ «Nonostante la complessità disordinata di questo conflitto, i media hanno teso a inquadrare la guerra come un genocidio istigato dal governo contro il popolo del Tigray, o anche come una guerra civile (un termine che implica la parità tra l’ampio sostegno di cui gode il governo eletto dell’Etiopia contro la frangia, i collegi elettorali a base etnica del TPLF, e il suo alleato altrettanto marginale, la violenta fazione Shene del Fronte di Liberazione Oromo, che lo stesso TPLF in precedenza considerava un gruppo terroristico)», affermano Bronwyn Bruton, è senior fellow presso l’Africa Center dell’Atlantic Council, e Ann Fitz-Gerald, direttrice della Balsillie School of International Affairs e docente di sicurezza internazionale alla Wilfrid Laurier University. Una narrazione che gli Stati Uniti, e le varie amministrazioni che negli anni si sono succedute, hanno fatto propria, mettendo in campo una politica appunto ‘filo-tigrina‘, e non da oggi.
Bruton e Fitz-Gerald, ricostruiscono nei dettagli questo che rischia di diventare un fardello che pregiudica la possibilità di una pace -dopo 13 mesi di autentico inferno’- capace di produrre quella riconciliazione nazionale che è alla base della pacificazione duratura del Paese e della sua ricostruzione.
«Le comunicazioni strategiche del TPLF hanno seguito lo stesso manuale degli anni ’80, quando le narrazioni del conflitto presero di mira attentamente l’agenda politica dei donatori internazionali e contaminarono l’allora governo etiope, un regime marxista noto come Derg, con accuse di crimini contro l’umanità.
Come negli anni ’80, oggi il TPLF ha esaltato il suo status di minoranza etnica e l’insicurezza alimentare endemica del Tigray -il 20% della popolazione dipende abitualmente dalle reti di sicurezza alimentare- per suscitare timori di genocidio e carestia. (I sostenitori del TPLF su Twitter hanno iniziato a diffondere l’hashtag #TigrayGenocide dopo poche ore dagli attacchi alla base militare del 4 novembre 2020). E ancora una volta, la stampa internazionale è caduta preda di queste narrazioni senza considerare la storia recente del TPLF come partito di governo autoritario che reprimeva tutti gli altri gruppi nel Paese. La sofisticata propaganda del TPLF è stata aiutata sia dalla strategia di comunicazione inizialmente debole del governo etiope, sia dalle smentite (probabilmente strategiche) del governo che l’Eritrea agisse come sua alleata nella guerra».
Per tutti questi 13 mesi, «i media sono rimasti per lo più fedeli alla loro prima rappresentazione del TPLF come ‘perdente‘, anche se i massicci eserciti del gruppo ribelle -che si pensa contino circa250.000 soldati addestrati– hanno minacciato diprendere d’assalto la capitale per rovesciare il governo.
L’ostinata attenzione dei media sul vittimismo del Tigray ha quasi cancellato la sofferenza acuta delle comunità tigriane senza voce che non supportano il TPLF e gli altri gruppi etnici del Paese che, per anni, sono stati emarginati dal governo del TPLF. Gli orribili massacri ad Afar e Amhara per mano del TPLF sono stati sorprendentemente sottovalutati, anche se ogni giorno emergono resoconti di violenza in proporzioni scioccanti».
«La narrazione asimmetrica ha colpito anche gli eritrei, che, nonostante tutta la malvagità delle loro forze armate nel Tigray, hanno subito un’occupazione del loro territorio per quasi 20 anni e uno spietato blocco economico per mano del TPLF, che ha sfruttato il suo dominio sull’Unione Africana e il suo status di partner indispensabile nella guerra globale al terrorismo per deviare le critiche sui propri diritti umani».
Il «doppio standard applicato alle parti è inconfondibile. La fragilità della minoranza etnica tigrina, forte di 6 milioni di persone, contro lo Stato etiope, forte di 105 milioni, è stata esposta dalla stampa; Gli eritrei sono anche, storicamente, una minoranza di pochi milioni che combatte contro il massiccio apparato statale etiope presieduto dal TPLF. Nessun accenno a quella storia dolorosa, compresa la detenzione, la tortura, l’uccisione o l’espulsione di almeno 75.000 persone di origine eritrea all’inizio della guerra di confine del 1998, ha pervaso la narrativa occidentale sul Tigray».
E qui, Bruton e Fitz-Gerald, richiamano il ruolo del TPLF e del suo rapporto con gli USA in Somalia,negli anni in cui il TPLF era al potere ad Addis Abeba. «Anche la storia del TPLF come procuratore potentemente armato nella guerra al terrore guidata dagli Stati Uniti è poco compresa, in particolare la sua volontà di fungere da punta aguzza della lancia degli Stati Uniti in Somalia. L’esercito etiope dominato dal TPLF ha lanciato un’invasione della Somalia nel 2006 per distruggere un movimento di governo di base, l’Unione delle Corti Islamiche, che gli Stati Uniti hanno percepito come una minaccia per i propri interessi di sicurezza nazionale, quindi ha brutalmente occupato il Paese per anni.
Le violazioni dei diritti umani dell’esercito etiope in Somalia hanno contribuito a spingere al potere il gruppo terroristico al-Shabab (sebbene solo l’Eritrea sia stata sanzionata per la sua ascesa). La dipendenza degli Stati Uniti dalla continua presenza delle truppe etiopi per contenere al-Shabab ha portato le successive amministrazioni statunitensi a proteggere e finanziare il TPLF».
Conoscendo questi trascorsi, molti etiopi hanno interpretato «il pregiudizio dei media occidentali e le misure punitive dell’Amministrazione Biden contro le autorità etiopi, come uno sforzo deliberato per nascondere i crimini del TPLF in nome dell’antiterrorismo. Molti etiopi temono persinoche Washington sostenga attivamente l’insurrezione e stia cercando un intervento in stile Libia-Iraq-Somalia per distruggere l’Etiopia e i nuovi sforzi per la pace regionale che Abiy, per molti, è arrivato a rappresentare».
«I resoconti dei media occidentali hanno avuto la tendenza a descrivere Abiy in modo errato, sia come istigatore che come promotore della guerra. Al contrario, all’inizio della guerra si scoprì che il TPLF possedeva milizia e armi che la maggior parte degli esperti valutava come equivalenti, o migliori, di quelli dell’esercito federale».
Così serve fare chiarezza, sostengono gli autori, su chi sia il TPLF e sulle sue forze. «L’hardware militare di cinque dei sette avamposti del comando settentrionale è stato sequestrato dal TPLF negli attacchi del novembre 2020 (i due avamposti situati più vicino al confine con Amhara sono stati meno colpiti)», a ciò si aggiunga «l’infrastruttura di intelligence saccheggiata che l’ex capo della spia Getachew Assefa aveva riportato nella capitale del Tigray, Mekele, prima dell’inizio della guerra, e una struttura di comando in tutta la regione già pesantemente armata che aveva mantenuto le armi dal rovesciamento del Derg… comprese le brigate meccanizzate, che sotto i governi regionali sono incostituzionali. Questo squilibrio di capacità ha messo la Ethiopian National Defense Force (ENDF – Forza di difesa nazionale etiope) significativamente in difficoltà per la maggior parte del conflitto».
Allo stato attuale delle cose, «fino a 400.000 tigrini potrebbero trovarsi ad affrontare condizioni simili alla carestia a causa di conflitti, interferenze logistiche e processi burocratici del governo etiope che incidono sulla consegna degli aiuti. Le popolazioni delle regioni molto più grandi di Afar e Amhara stanno soffrendo livelli comparabili di insicurezza alimentare acuta a causa del blocco e del saccheggio degli aiuti da parte del TPLF, delle minacce agli operatori umanitari, del saccheggiodelle comunità e dei propri massacri etnici.
È abbastanza chiaro che il TPLF non ha mai avuto intenzione di dare la priorità alla consegna di aiuti salvavita ai suoi cittadini, nonostante la comunità internazionale stia aumentando la pressione sul governo federale etiope per un cessate il fuoco unilaterale per aprire la strada a questo».
Bruton e Fitz-Gerald sottolineano quelli che definiscono i «molteplici fallimenti della politica statunitense» determinata dall’inazione USA sul TPLF, che addirittura «hanno probabilmente prolungato il conflitto».
«La politica degli Stati Uniti nel Corno d’Africa è a brandelli», in Sudan, «con i generali sudanesi che scavalcano il governo di transizione appoggiato da Washington», in Somalia, la quale «chiede il ritiro delle forze di pace sostenute dagli USA», in Eritrea, «ribollente per l’imposizione di sanzioni statunitensi, a Gibuti, dove «il Ministro degli Esteri si è sentito spinto ad annunciare, su Twitter, che il governo di Gibuti non avrebbe permesso a nessuna truppa straniera, ovvero alle forze statunitensi, di usare il suo territorio per lanciare attacchi contro i suoi vicini», mentre in Etiopia ci sono funzionari «convinti che Washington stia fomentando uncambio di regime».
Da tempo gli Stati Uniti stanno perdendo terreno in Africa a favore di Cina, Russia, Turchia e Stati del Golfo. Ma ora, non c’è una sola nazione nella regione geostrategicamente vitale del Horn che sia affidabile per Washington». E tutto «mentre una nuova guerra fredda si riscalda».
Washington, affermano Bruton e Fitz-Gerald «ha in gioco un interesse fondamentale per la sicurezza nazionale: in primo luogo, nel salvare la sua reputazione, e in secondo luogo, nell’assicurare che la partnership tra Abiy e Isaias produca più prosperità e libertà per l’Eritrea e non più repressione per l’Etiopia. Ma se non corregge il corso, e rapidamente, è probabile che Washington non abbia alcuna voce nel formare qualunque dispensa politica verrà dopo».
Per anni, «Washington ha spudoratamente elogiato e fatto affidamento sull’Etiopia per‘esportare stabilità‘ nei punti problematici intorno al Corno. In pratica, ciò ha significato finanziare uno stato di polizia che ha rafforzato la stabilità sia interna che regionale attraverso un’intensa repressione». Ora «Washington deve domare la sua nostalgia per la dittatura del TPLF e abbracciare, invece, la transizione dell’Etiopia in una fragile democrazia postbellica. Deve smettere di incolpare Abiy per l’inevitabile esplosione di decenni di animosità etniche represse e riconoscere che parte dell’immensa devastazione di questa guerra è dovuta al finanziamento negligente di Washington e al sostegno politico di un regime autoritario».
L’Amministrazione Biden, poi, «ha anche urgente bisogno di sviluppare una migliore comprensione del panorama politico interno dell’Etiopia, comprese le basi dell’insoddisfazione percepita da alcuni gruppi Oromo e l’impatto degli storici e incostituzionali sequestri di terra del TPLF, e smettere di fare richieste impossibili».
«La migliore manovra di Washington, per abbreviare la guerra e salvarne la reputazione, è chiedere la resa dei leader del TPLF che hanno pianificato e avviato la guerra. La recente apertura della pace da parte del TPLF e l’annuncio del governo federale etiope che le sue truppe non avrebbero attraversato il Tigray offrono un’opportunità per una completa cessazione dei combattimenti.
Questo chiaramente non è abbastanza: è improbabile che una semplice cessazione delle ostilità consenta il flusso ininterrotto di aiuti che è urgentemente necessario per arginare la crisi della fame nel Tigray. Lascia anche uno spazio aperto per ulteriori campagne di disinformazione guidate dal TPLF e pianificazione dell’insurrezione ed è probabile che sia percepito dalle comunità di Amhara e Afar come un tradimento, dal momento che quei gruppi sono più a rischio di fronte al fatto che ai combattenti del TPLF venga concesso qualsiasi breve -termine di sospensione. (Anche l’Eritrea potrebbe ragionevolmente temere un nuovo assalto del TPLF ai suoi confini.)
La rimozione dei principali istigatori del TPLF dal campo di battaglia fornirebbe probabilmente rassicurazione a tutti questi attori, anche senza che si svolga un diffuso processo di disarmo. È importante sottolineare che fornirebbe anche un’opportunità alle voci tigraie non appartenenti al TPLF, oa una generazione più giovane di figure del TPLF, di partecipare al processo politico. L’alternativa alla resa dei leader del TPLF potrebbe essere una lunga e spaventosa situazione di stallo in cui il TPLF potrebbe ripetutamente tentare di uscire dal Tigray per ottenere l’accesso a una linea di rifornimento sudanese, ma con una probabilità di successo decrescente poiché le sue munizioni e le sue forniture si esauriscono. Chiedere la resa dei principali leader del TPLF aiuterà a rassicurare gli etiopi che gli Stati Uniti non stanno sostenendo l’insurrezione o cercando il rovesciamento del governo etiope».
«Se questi leader del TPLF si rifiutano di arrendersi nell’interesse della pace, gli Stati Uniti dovrebbero applicare sanzioni. A differenza di Abiy, i leader del TPLF hanno sia beni che famiglia all’estero e sarebbero vulnerabili alle pressioni esercitate sulle loro fortune. Le sanzioni manderebbero anche un messaggio fermo a chiunque stia pianificando future insurrezioni».
Nell’interesse della pace, Abiy dovrebbe, a sua volta, essere incoraggiato a dichiarare l’amnistia per la base del TPLF che è stata costretta a combattere (ha offerto tale amnistia in passato)». In questo modo gli Stati Uniti «potrebbero almeno essere in grado di esercitare un’influenza costruttiva sui colloqui di pace tra il governo federale etiope e il Tigray».
Se poi in futuro «gli elettori della regione del Tigray sceglieranno di separarsi dall’Etiopia, allora questa opzione dovrebbe essere sostenuta».