In vista delle elezioni politiche di marzo 2018, i programmi dei partiti iniziano a prendere forma. E una delle ragioni dell’astensione sta proprio nei programmi proposti agli elettori, visto che non si riesce a capire quale sia la caratteristica di ogni partito che dovrebbe spingere un elettore a votarlo, dal momento che tutti presentano temi uguali.
Su tutti campeggia il tema del reddito di: cittadinanza, dignità, inclusione. Nomi diversi per un solo argomento: la povertà.
L’aumento dei poveri costringe lo Stato a porre un rimedio, e l’introduzione di quel tipo di reddito sarebbe un deterrente per coloro che si trovano in difficoltà finanziarie. Ma un tale reddito non si capisce bene come agisca sulle finanze dello Stato e sull’economia. Ma si capisce però una cosa: quando i partiti mettono al centro quel tipo di reddito, attestano la povertà di una larga parte della popolazione e il fallimento nella creazione dei posti di lavoro. Con lo spettro più preoccupante: lo Stato che, dopo anni di lavoro per superare il fenomeno dell’assistenzialismo, lo sta in realtà ripristinando. Al Nord come al Sud.
Il reddito di cittadinanza, dignità, inclusione dimostra la schizofrenia dell’attuale sistema a pensiero unico del mondo, ossia il profitto: nel mentre si erige a feticcio il denaro e lo si fa guadagnare con sacrifici e diritti sempre più precari, dall’altro lo Stato ammette la finanza come sistema di pirateria del profitto quando ricorre al reddito di cittadinanza o di inclusione.
Allora, cosa aspetta la politica a intervenire sulla ingiustizia dei profitti? Perché tra le varie conseguenze di quel tipo di reddito a carico dello Stato, vi è la seguente: deresponsabilizzare le aziende rispetto all’adeguamento della retribuzione, tanto ci pensa lo Stato.
Quando i partiti includono nel loro programma quel reddito, ammettono implicitamente l’irreversibilità di un processo che va sotto il segno dell’innovazione, la quale, in prospettiva, rappresenterà la voce maggiore della disoccupazione e, quindi, della certezza del reddito. Una prospettiva che non può essere fermata e, forse, neanche governata, visto che, soprattutto da quando è subentrata l’economia dell’immateriale, la tecnologia scandisce le agende dei governi e dei lavoratori e, soprattutto, decidono le riprese economiche dopo che si è passati dalla loro crisi.
Una crisi che nasceva, l’ultima lo conferma, proprio dall’uso incontrollato della tecnologia, la quale decideva, mediante la parola magica ‘algoritmo’, quali operazioni permettere e quali no, senza altro controllo che una serie di indicatori che l’operatore umano non poteva verificare né correggere. Ma vi è un implicito paradosso nell’innovazione che risolve la crisi: quando le aziende si dotano dell’innovazione, salgono i loro profitti perché diminuiscono gli occupati. Con l’innovazione, aumentata dalle nuove tecnologie robotiche, diminuiranno i posti di lavoro, perché a svolgerlo ci saranno le macchine.
E allora, a quanti dovrà essere esteso il reddito di inclusione, dignità, ecc.? Il rapporto tasse/risorse finanziarie sarà in grado di assicurare tale reddito o lo Stato andrà incontro anch’esso al fallimento? La partita è tutta da giocare con esiti difficili da prevedere; la partita, però, è in campo e la sfida consiste nel gestire la progressiva disoccupazione umana sostituita dall’innovazione.
Una gestione che presenta almeno due aspetti, uno in guerra con l’altro: se al cittadino lo Stato deve garantire la sussistenza, anche perché l’occupazione si riduce fisiologicamente, quelli che hanno ancora un lavoro perché devono farlo se possono fare il salto nell’altra corsia reddituale? A chi sarà utile lavorare invece di riceve il reddito di sopravvivenza? Il reddito di cittadinanza mette il cittadino al riparo da una serie di difficoltà e manifeste ingiustizie, la prima delle quali sarà relativa a uno ancora smisurato aumento del profitto delle aziende le quali, con pochi lavoratori, si assicureranno una ricchezza ancora più consistente perché a lavorare saranno le macchine, che hanno solo i costi manutenzione.
Se lo Stato cade nella trappola del reddito di cittadinanza, inclusione, dignità, sarà la volta di un altro suo abdicare all’esercizio delle sue funzioni, riconoscendo di fatto alle aziende il governo dello stato di cose, prima che lo Stato non riuscirà neanche più a garantire le sue ultime funzioni, poiché rischia il fallimento. La prospettiva è nota, la società americana lo professa da anni, almeno dall’epoca di Reagan in poi: meno Stato più impresa. Quando i partiti mettono nel loro programma tale reddito, si rendono responsabili di quello che lo Stato diventerà: il suo fallimento per non aver invertito le sperequazioni del reddito e la definitiva vittoria delle multinazionali sulla sovranità giuridica e fisica dello Stato.
Quello che, intanto, ci stupisce nei partiti che hanno il tema del reddito a carico dello Stato è il fatto che nessuno di essi abbia esplicitato che tale reddito, nelle Regioni a statuto speciale, sia contemplato dai contributi che lo Stato versa a quelle Regioni, anziché gravare lo Stato anche per la quota di quel reddito. Solo se le Ragioni a Statuto speciale preleveranno dai contributi che lo Stato versa loro le quote per i redditi di cittadinanza, contributi davvero anomali e ingiusti per tutti gli altri cittadini delle Regioni italiane, potremmo avere una piccola correzione dello squilibrio in atto dovuto ai finanziamenti a quelle Regioni. Perché nessun partito lo mette chiaro e tondo nel suo programma?