Accennavo l’altro giorno all’idea dell’’uomo del destino’, come soluzione unica nelle mani di un ceto politico scadentissimo e, sostanzialmente, incapace.
Ora è sempre più evidente e pesante il distacco profondo che si è creato tra Mario Draghi (e una piccola parte del suo Governo, piccolissima) e il sistema dei partiti. Ormai viaggiano su binari diversi, nemmeno paralleli, ma divergenti. Salvo che ogni tanto qualche politicante mormora qualche squittio per cercare di liberarsi di Draghi, mandandolo al Quirinale. L’ultimo di cui abbia visto è stato Giancarlo Giorgetti, che, fiero e impettito per essersi differenziato dal capitano, credo che si immagini leader italiano super e possibilmente prossimo Presidente del Consiglio.
Il Quirinale -è avvilente, ma è così- è diventato lo strumento per certi politicanti italiani per ‘liberarsi’ di Draghi. E, se non sbaglio, è stato proprio Draghi a prendersela con un giornalista che gli chiedeva appunto questo, invitandolo a trattare il Quirinale con maggior rispetto. Anche se, purtroppo, candidati credibili al Quirinale ve ne sono pochissimi e ogni giorno di meno.
Dall’altra parte ci sono quelli -e sono molti- che vorrebbero imbullonare Draghi a Palazzo Chigi, nelle vesti di, come dicevo, ‘uomo del destino‘. Una sorta di ‘ghe pensi mi’ senza olgettine. Idea a sua volta del tutto sballata, per almeno due motivi. Il primo, di carattere, ma solo ipotizzabile perché non credo che Draghi sia tipo da sedersi a riposare e al massimo fare l’uomo di rappresentanza: meglio non fare nulla che essere un simbolo. Ma beninteso questa è una mia idea: non conosco Draghi, non lo ho mai visto e dubito assai di conoscerlo in futuro, a me sembra così. È uno diretto, non ce lo vedo a fare come Sergio Mattarella la ‘moral suasion‘.
L’altro motivo in parte collegato al precedente, è che Draghi, a mio parere, punta ad altro, a ben altro. Oggi in Europa c’è una occasione d’oro, probabilmente irripetibile.
La fine dell’era Merkel -una fine che, ribadisco quanto ho detto ieri, essere stata programmata per un fine politico-, non lascia solo l’Europa senza un leader, lascia una Europa ferma ad un bivio.
Da una parte la strada che porta alla trasformazione dell’Europa in una sorta di OCSE un po’ più evoluta: una organizzazione di carattere commerciale e poco di più. È, questa, l’Europa che vorrebbero i vari Orbàn, Salvini, Le Pen, Rutte, Kurz. Ma, fin dalle origini, c’è un’altra Europa, quella dell’altra strada del bivio. Quella sognata e voluta da Spinelli e Schuman, che ebbe come primo passo la Comunità del carbone e dell’acciaio. Ma che, principalmente, sperimentò la possibilità reale di ‘superare‘ gli Stati nazionali, non solo in astratto, ma in concreto: devolvendo, cioè, talune delle funzioni degli Stati alla centralizzazione della burocrazia europea, ma senza intaccare il potere ‘nazionalistico’ dei singoli Stati. Il potere sovrano, direbbero i nostri ‘sovranisti’, che, non avendone capito nulla, cianciano ancora di limitazioni di sovranità, cessione di sovranità e bubbole del genere.
È, invece, abbastanza interessante in merito ricordare che fu la Francia, il Paese di Schuman, il Paese della rivoluzione francese, quello che determinò la prima svolta in senso nazionalistico dell’Europa dell’epoca, con la politica della cosiddetta ‘sedia vuota‘.
Ricordiamole bene le cose, perché sono istruttive per comprendere quali e quanti problemi derivano da un tentativo di riportare l’Europa alla sua vocazione iniziale, ideale, generosa (sì, perfino generosa), aperta.
Nel 1965-66, in Europa si cominciò a discutere della possibilità di aumentare i poteri del Parlamento Europeo e di centralizzare maggiormente la politica agricola europea, ma anche e specialmente di decidere di rendere le decisioni del Consiglio dei Ministri realizzabili a maggioranza ponderata. C’era anche sullo sfondo la richiesta di adesione della Gran Bretagna cui si opponeva fermamente la Francia, la Francia di De Gaulle -un nazionalista moderno, ma pur sempre l’inventore della cosiddetta ‘grandeur’ francese, un atteggiamento che ancor oggi permane.
L’opposizione di De Gaulle fu durissima e perfino violenta. Per quanto attiene alla Gran Bretagna, essa dové aspettare il 1969 per potere accedere alla UE, dopo ben sei anni dalla prima richiesta: una sala d’attesa umiliante e dannosa, dalla quale, io credo, sono anche partiti i germi dell’antieuropeismo britannico che ha portato all’uscita della Gran Bretagna dalla UE.
Ma il tema più importante fu quello dell’allargamento del ‘potere‘ dell’Unione (allora si chiamava CEE) nei confronti degli Stati membri. Per ottenere il risultato voluto, De Gaulle inaugurò, appunto a partire dal 1965, quella politica, consistente nel fatto che la Francia non partecipava alle riunioni del Consiglio. È chiaro quanto una cosa del genere potesse mettere in crisi l’Europa, che fu sull’orlo dello scioglimento.
Fu poi con un accordo a Lussemburgo, che si decise ciò che ancora oggi, purtroppo, vale: nonostante la norma preveda l’adozione a maggioranza delle decisioni del Consiglio, l’accordo fu che, in caso di opposizione di uno degli Stati membri, la decisione venisse sospesa, non si assumesse più, sia pure non cancellandola. Insomma, una apertura a trattative defatiganti e devastanti, che hanno alla fine prodotto quei tanti atti della UE, criticati perché confusi e ambigui o comunque insoddisfacenti. Tanto più che l’adesione, sconsideratamente voluta proprio dalla Germania, di tanti Stati molto indietro non solo economicamente ma culturalmente dai Paesi membri dell’UE, ha portato alla situazione odierna di immobilismo dell’UE sui problemi realmente importanti. Quell’immobilismo che ha permesso a qualcuno di ridicolizzare l’Europa come lo strumento per definire la lunghezza delle vongole. L’ottusità nazionalistica di molti italiani, trova molta corrispondenza in altri analoghi.
Un punto di svolta, dopo tanti anni di immobilismo e di burocratismo, è stata la presidenza Draghi della BCE. E questo è il vero tema. Draghi, infatti, è quello che scrisse la famosa lettera per costringere l’Italia ad un rispetto maggiore delle regole del bilancio europeo, ma è stato anche quello che, all’improvviso, attuò (non la propose nemmeno) la nuova politica di bilancio europeo del quantitative easing.
Personalmente, ma non ho uno straccio di prova, sono convinto che quella decisione clamorosa, assunta profittando del fatto che la BCE non è condizionabile direttamente dagli Stati membri (come ogni banca centrale che si rispetti), fu presa d’accordo con la signora Merkel, quella che aveva ammazzato la Grecia, portato alla bancarotta Cipro, ecc.
Il pregio del buon politico è anche quello di saper essere duttile nelle proprie idee, ma specialmente realistico nell’applicarle. Angela Merkel lo è stata, cambiando lentamente e sotterraneamente posizione in materia di rigore del bilancio. Draghi lo è stato dall’inizio. Ha creduto nella UE, e la ha letteralmente salvata dallo scomparire, utilizzando sia una forte capacità di persuasione derivante dalla sua autorevolezza, sia il potere che deriva dai trattati al governatore della BCE.
Ora in Europa il tema è, obbligatoriamente, quello del rafforzamento di altre istituzioni europee, ad esempio in materia economica, ma anche facendo finalmente prevalere la regola della maggioranza nel Consiglio. Non è cosa che si faccia in una settimana, ma nemmeno in un anno. Ma si può fare, e, quel che è più importante, si deve fare.
E quindi, ritorno a quanto sto scrivendo da mesi, Draghi punta a quello.
Per il potere? Per essere il primo re d’Europa? Faccio un’ipotesi, mi ci gioco l’osso del collo: per convinzione tecnica e politica, ma anche ideale, che l’Europa è il nostro futuro, anzi, che senza l’Europa non c’è futuro.
Certo, si dovrà fare capire a Emmanuel Macron o, meglio, ad un suo successore (magari una donna, si dice) che alla Francia conviene essere un leader importante di una Europa unita, piuttosto che un improbabile partner di una comunità del Pacifico, dove conterebbe quanto conta oggi: nulla.
In un simile scenario, immaginare che Draghi voglia soddisfare le ambizioni di Giorgetti, o perda tempo a rintuzzare quei tre o quattro piccoletti della politica italiana da lasciare divertire a giocare al ‘piccolo politico’, immaginare ciò è insensato. Quanto all’appoggio certo di Matteo Renzi … ho contratto una bronchite pesante, per favore non costringetemi a ridere.