In questi tempi di grande ed esistenziale incertezza, avvertiamo una sorta di operazione nostalgia, di revival delle cose e dei momenti del passato. E il campo dello spettacolo è forse l’amplificatore più evidente di questo sentimento, o anche del bisogno di conoscere o di riconoscersi, del How we were, del come eravamo. Si pensi a Techetechete l’indovinato programma della Rai che ci ha accompagnato durante tutta questa estate incandescente e siccitosa ogni sera riproponendo momenti personaggi ed emozioni della nostra storia passata e presente e, per questo, accolto da un considerevole favore di pubblico.
Altri eventi di questo ritorno al passato, il Tour dei Rolling Stones (una sola tappa in Italia, al Lucca Summer Festival), la sistematica reinterpretazione da parte di artisti che oggi vanno per la maggiore, di brani di cantautori scomparsi (più o meno prematuramente) e che hanno lasciato un segno nella nostra anima insieme al vuoto della loro assenza fisica: De Andrè, Jannacci, Graziani, per ricordarne alcuni, della cui ‘rinascita’ si sono incaricati i figli ( rispettivamente Christian, Paolo e Filippo) , o altri artisti riproposti non dai figli d’arte ma dai colleghi che li hanno amati e stimati e che sentono il bisogno di ricordarli o di farli conoscere a chi non ha avuto la fortuna di apprezzarli in vita, come Simone Cristicchi per Sergio Endrigo, il suo Maestro ( anche Fiorella Mannoia Irene Grandi e Patty Pravo omaggiano il grande artista a 10 anni dalla scomparsa), senza parlare poi della presenza continua soprattutto sui programmi radiofonici Lucio Battisti, Lucio Dalla e Pino Daniele ( per i quali è ancor fresca la ferita per la perdita) o della costante discontinuità di presenza di Rino Gaetano, il cui spirito ribelle riemerge di tanto in tanto allegro e pungente (peccato su quest’onda emotiva del ricordo non vi sia Stefano Rosso, ma verrà, ne siamo certi, anche il suo momento).
Anche l’operazione editoriale L’arte di Hugo Pratt, può essere collocata in questo filone di sapore proustiano alla recherche du temps perdu, o ritrovato. Ebbene, c’è un artista poliedrico – cantautore tra i più apprezzati, attore, disegnatore fumettista, poeta, narratore – che non ha bisogno di interpreti, essendo vivo attivissimo e indifferente al corso degli anni: è Don Backy (Aldo Caponi, nome vero). Quelli di una certa età lo ricordano come uno dei grandi protagonisti degli Anni 60 -70 non solo nel campo musicale ma anche in quello cinematografico e narrativo.
La canzone, certo, è stato il suo palcoscenico più noto e duraturo, in quanto autore di ever green come l’Immensità, Canzone e Poesia, solo per citarne alcune, e protagonista autorevole, finché vi rimase, del Clan di Celentano. Basti pensare che a tutt’oggi alcuni dei suoi successi vengono riproposti da interpreti come Mina e Milva, Vanoni, Negramaro, Baglioni, Nannini, Renga, Il Volo, Fiordaliso, Malgioglio o da lui stesso, quando capita. Ma anche nel cinema di qualità e commerciale Don Backy ha lasciato un segno importante : fra le molte pellicole girate ci piace ricordare film di qualità – quelli che ora si vanno riscoprendo nei sempre più rari o quasi estinti Cineclub – che lo hanno visto interpretare ruoli di grande spessore, come nei Sette fratelli Cervi di Gianni Puccini o in Banditi a Milano e Barbagia di Carlo Lizzani o anche in Cani Arrabbiati di Mario Bava.
Mentre le canzoni proseguono il loro cammino, la sorpresa che Don Backy ci riserva è un’altra e si muove su un terreno a lui estremamente caro: la narrativa. Una decina i libri da lui scritti. L’ultimo è stato, credo, un corposo volume ricco anche di foto, dal titolo Questa è la storia….memorie di un juke box, uscito nel maggio del 2007 e dedicato a sua moglie, Maria Liliana. Dunque, dieci anni fa. E’ invece del maggio 2017 la ristampa per iniziativa della casa editrice fiorentina Clichy, del suo primo libro, pubblicato 50 anni fa da Feltrinelli dal titolo Io che miro il tondo. E’ di questo repechage che ne parliamo con l’autore, per capirne un po’ di più di lui, della sua vita di artista tanto ribelle quanto geniale e creativo, e di quegli anni. Ma non solo. Anche di oggi, di come dal suo orgoglioso isolamento – così lo descrive l’amico Vittorio Sgarbi – Don vede lui il suo mondo – anzi i mondi che ha scandagliato a bordo di quella nave pirata che molti anni fa levò le ancore da St. Cruz, per solcare mari perigliosi e affrontare gente d’ogni tipo e sotto ogni latitudine. Di queste avventure nel mondo, dove realtà e immagine, vita e sogno si intrecciano e non sai più dove finisce l’una e comincia l’altra, ci parla infatti Io che miro il mondo.
Don sono tante le domande che vorrei farti. La prima è questa: come nasce il tuo nome d’arte?
Incredibile a dirsi, la prima proposta di Adriano Celentano fu Cocco Bacillo. Aldo Caponi, non suonava bene. Bacillo t’immagini? Poi per fortuna a furia di dire strafalcioni e riderci su, optammo per Don, un omaggio a Don Gibson e a Don Everly. Degli Everly Brothers, miei preferiti. Bacillo fu aggiustato in Backy.
E l’idea di pubblicare 50 anni dopo Io che miro in tondo come ti è venuta?
L’idea è nata tra me e Marco Vichi, poi è stata accolta favorevolmente da Tommaso Gurrieri della Clichy, a cui piacciono le sfide pazze, appunto.
Cosa vi ha trovato Marco Vichi, scrittore di successo e autore delle tante avventure del Commissario Bordelli ( figura ispirata al padre) lo spiega lui stesso. “Perché si tratta di un libro folle – dice – , folle come il suo autore, e perché dietro ai verbi violentati, ai neologismi impossibili, ai giochi di parole raffinati e demenziali fino all’esilaranza (ecco,mi ha contagiato) si sente vibrare l’autobiografia, materia difficile da plasmare. E perché tutto quello che non si dovrebbe fare Don Backy lo fa. Perché è un romanzo rock, candido, tenero e sincero, un inno alla giovinezza e alla bella “scaprestitudine”. Perché anche oggi ci dà il gusto e la bellezza di uscire dai binari.
Il libro sembra inserirsi nel dibattito che muove oggi le pagine dei giornali, sulle storpiature dovute a ignoranza della lingua italiana, sull’ eccesso di anglismi che taluni giudicano severamente e sull’appiattimento al linguaggio del web. Don Backy come giudichi la narrativa di questo libro denso di quegli impagabili pasticci linguistici, come li definisce un fine letterato come Alberto Pozzolini? E come è accolta la tua operazione linguistica?
Posso dirti che quando lo scrissi nei momenti di quel furore letterario che mi assaliva spesso ma soprattutto di notte, come un delirio, in cui trasformavo la quotidianità in voli fantastici, trasformando S.Croce sull’Arno, città della toscana distretto delle concerie, nella messicana St.Cruz. Ebbene, rubando il sonno alla notte o alle ore di riposo e di viaggio dopo i concerti, lo scrissi e poi consegnai il dattiloscritto a Gian Giacomo Feltrinelli. Era ancora la prima stesura, tutta da correggere, ero disposto a renderlo più ‘accettabile’ insomma. E invece, al suo ritorno da Cuba l’editore, che aveva portato con sé il manoscritto, mi disse: O si pubblica così com’è scritto, senza toccare una virgola o non se ne fa di nulla. Che avresti fatto? Accettai. Era il 1967.
Quante copie furono vendute?
Vi erano i segnali di un grande successo, poi la Feltrinelli privilegiò la linea politica e i libri “leggeri” uscirono dal catalogo ( almeno il mio), ma eravamo già arrivati a 5000 copie. All’uscita del volume L’Espresso, parlò di «pessimismo lucido e totale, evocato da uno stile dai tratti céliniani».
Già, il ’68 era alle porte cui seguirono gli Anni di Piombo.
E io l’ho guardato dalla finestra. Avevamo gli uffici su corso Europa a Milano, teatro di tutti i cortei. Mangiavo in un ristorante nei pressi della Statale. Capanna stazionava fisso in un bar vicino. Picchiamenti, sfilate, spari, cariche di polizia, ho visto di tutto. Politicamente, però, mi sono sempre tenuto fuori. Sbagliavo? Il fatto è che con tanti asini che ragliavano, il mio raglio non sarebbe servito. Ma la mia eversione stava nel romanzo appena pubblicato. Fu un gran divertimento annientare le regole. Sorridai suonava meglio di sorrisi, Temebbi di temetti. I calembour sgorgavano a fiotti, naturali come respiri, perché l’italiano per me non aveva mai avuto segreti. Picasso smontava i volti con nasi e bocche cubisti perché sapeva essere figurativo alla perfezione. A noi toscani l’italiano è connaturato. A scuola ero un somaro in tutto, tranne in italiano. Mio padre, che ha fatto sì e no le elementari perché a dieci anni già lavorava in concia, non ha mai sbagliato un congiuntivo.
Ma come è stata accolta allora e oggi la tua operazione dissacratoria della lingua italiana?
Come un gioco intrigante. Pensa che nel 1968, un prof. di Lettere dell’università di Torino, dopo aver seguito in silenzio la presentazione del libro si alzò per farmi i complimenti, dicendomi che erano dieci anni che non provava più simili emozioni, leggendo un libro. Le distorsioni, le apparenti strafalcionerie, disse, aiutano a riflettere a interrogarsi ed a correggersi. E’ una ‘ribellione’ o trasgressione che ho trasferito anche in qualche canzone, come il brano dal titolo Ho rimasto, nell’album l’Immensità…. Ebbene, rileggendo il libro a 50 anni di distanza, trovo che sia stato molto depredato dei neologismi inesistenti prima…
Ma conserva – sottolinea Vichi – la qualità letteraria innovativa apparsa già allora, dove gli schemi, il tempo e lo spazio sono annullati…
Il romanzo di un ribelle. Anche nella vita immagino…ribelle e malinconico. E cosi?
Sì, fin da ragazzino. Nel libro c’è molto di quel me adolescente che provava cose diverse dai coetanei. Volevo un futuro diverso da come mi si prefigurava. Il libro nacque da questo desiderio di libertà. Quando? Vivevo solo a Milano. E la notte, riascoltando all’infinito due dischi Hallo Dolly di Louis Armstrong e Le 50 chitarre di Tommy Garrett, venivano fuori le visioni scellerate che battevo a macchina. Senza regole, senza fraseggi. Scrivevo all’impronta, quello che mi soffiava il genio all’orecchio. Il ritmo veniva dalle battute. Quanto alla malinconia, è intrinseca alla mia poesia. E’ uno stato d’animo che spinge a captare i segnali dell’universo, ad ascoltare i pensieri, a cercare qualcosa che sfugge. Serve per cantare, scrivere, dipingere. E’ raro che l’allegria produca opere d’arte.
Come nasce una tua canzone?
Nasce insieme alle parole, come una piccola scintilla provocata da una sensazione. Prendi l’Immensità. Nacque in una notte di pioggia a dirotto, nessuno per le strade, neanche un cane, avvertii un indicibile senso di solitudine, di smarrimento, e mi chiesi che cosa succederebbe se per ogni goccia nascesse un fiore…
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