Nel 2014, dopo l’applicazione delle sanzioni euro-statunitensi contro la Russia contestualmente al dilagare della crisi ucraina, la Duma ha approvato un disegno di legge mirante ad incrementare l’autonomia finanziaria russa attraverso la creazione di un sistema elettronico di pagamento nazionale, modellato sulla falsariga del cinese Union Pay (seconda al mondo, le cui carte di credito possono essere utilizzate in oltre 140 Paesi), alternativo a quello vigente, gestito da Visa e Mastercard.  Mosca ha anche posto le basi per la creazione, di concerto con i cinesi, una piattaforma alternativa a Swift, la camera di compensazione in cui si espleta gran parte del commercio internazionale su cui si concentra la capillare attività di sorveglianza e controllo della Cia e dalla Federal Reserve.
Nell’annuncio relativo al lancio di questo progetto, giunto dopo una serie di incontri bilaterali di alto livello, il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov e il ministro degli Esteri cinese Cheng Guoping hanno comunicato che di questa nuova una camera di compensazione bancaria russo-cinese avrebbero fatto inizialmente parte oltre 90 istituti di credito collegati tra loro per tramite della Bank of Russia e della People’s Bank of China. Recentemente la presidente della Bank of Russia Elvira Nabijullina ha chiarito che, in caso di espulsione dallo Swift, in Russia verrebbe automaticamente avviato tale sistema (denominato Spfs) che è in grado anche di permettere il regolare funzionamento di una parte più che preponderante dei bancomat disseminati nello sterminato territorio della Federazione Russa.
L’agenzia ‘Sputnik’ ha inoltre rivelato che nell’ambito del rapporto di collaborazione tra Mosca e Pechino rientra anche il progetto per la creazione di un circuito finanziario in cui regolare il commercio bilaterale tra i due Paesi senza far ricorso al dollaro. L’oro è il mezzo candidato a rimpiazzare il biglietto verde, e Russia e Cina intendono coinvolgere nel programma tutti i Brics.
L’idea non è nuova, dal momento che, già nel settembre del 2014, il governatore della People’s Bank of China aveva dichiarato che: «Il mercato dell’oro è parte importante e integrale del mercato finanziario cinese. Oggi siamo il più grande produttore, importatore e consumatore nel mondo. La Banca Centrale della Cina continuerà a sostenerne il mercato». Di fatto, in Cina esistono già le basi per il lancio del Gold Standard, avendo Pechino e la People’s Bank of China esortato per anni la popolazione ad accumulare riserve in oro come forma di tutela in previsione del collasso del sistema monetario internazionale vigente, basato sul credito inesigibile. Nel 2009 la Cina ha annunciato di detenere 1.059 tonnellate di riserve auree ma da allora non ha più diffuso dati ufficiali, sebbene tutti gli analisti concordino nel riconoscere che Pechino sia tra gli operatori più attivi sul mercato dell’oro fisico. La maggior parte degli osservatori stima il livello delle riserve cinesi in 5.000 tonnellate, ma qualcuno si è spinto a parlare di una quota oscillante le 20.000 e le 25.000 tonnellate.
L’intenzione della Cina sembra essere quella di incamerare almeno 30.000 tonnellate d’oro, con un obiettivo alquanto ambizioso: nel caso in cui il prezzo dell’oro raggiungesse i 4.700 dollari per oncia (contro gli oltre 1.200 attuali), Pechino disporrebbe di riserve auree sufficienti a coprire l’intero valore delle attuali riserve valutarie pari a 4 trilioni di dollari. Qualora il dollaro collassasse, la Cina incasserebbe il premio di assicurazione. Per far salire il prezzo dell’oro a quota 4.700 dollari per oncia, alle autorità cinesi basterà annunciare il possesso di sole 10.000 tonnellate (che nessun singolo Paese detiene), favorendo una corsa generalizzata verso lo yuan e l’oro. E dal momento che l’oro, a differenza del dollaro, non si crea digitalmente, la domanda a fronte di un’offerta limitata lo spingerà a valori stellari.  La rivalutazione del metallo prezioso contagerebbe anche le altre commodity, i cui prezzi sono comunque in crescita tendenziale e costante fin dal 2004, per via del suo chiaro, ancorché implicito, messaggio inflazionistico.
Questa ‘corsa all’oro’ è dovuta al fatto che la crisi dell’economia statunitense aveva provocato lo scricchiolio del sistema internazionale imperniato sul dollaro, conferendo al controllo delle riserve auree e alla produzione di oro un ruolo strategico fondamentale. Vanno quindi considerati non solo i Paesi che detengono le maggiori riserve auree all’interno delle proprie Banche Centrali, ma anche le nazioni che, disponendo dei maggiori giacimenti minerari, sono in grado di controllare la produzione mondiale di oro. Ufficialmente, gli Stati Uniti dispongono delle maggiori riserve auree, mentre la Cina è il più grande Paese produttore al mondo, in testa ad un gruppo di nazioni comprendente Australia, Russia, Sud Africa, Stati Uniti, Perù e Canada. Le aziende leader mondiali nell’estrazione di oro sono le canadesi Barrick Gold, Goldcorp Inc. e la statunitense Newmont Mining. L’attendibilità delle cifre dichiarate dalle Banche Centrali riguardo la quantità reale delle riserve auree detenute non può tuttavia essere verificata, così come è altrettanto impossibile sia calcolare il totale dei derivati sull’oro negoziati sui mercati finanziari sia quantificare l’ammontare delle riserve auree accumulate dai privati nel corso dei secoli.