sabato, 1 Aprile
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Caporetto e altri modi di dire

Il 2017 è periodo di anniversari importanti: abbiamo visto il centenario della Dichiarazione Balfour e quello della Rivoluzione d’Ottobre. Ora tocca a un altro evento capitale avvenuto nel 1917: la disfatta di Caporetto. Proprio l’8 novembre 1917 si concludeva quella che è probabilmente la più grande sconfitta militare e politica della storia d’Italia e non deve destare sorpresa il fatto che ancora oggi, quando vogliamo indicare una disastrosa sconfitta, diciamo: ‘È stata una Caporetto!’, entrando così nel novero degli eventi storici diventati modi di dire che, con l’occasione, andremo qui ad analizzare.

Ma cosa avvenne a Caporetto tanto da farle meritare questa sgradita promozione? Il contesto è, come si sa, quello della Prima Guerra Mondiale, la guerra di logoramento per eccellenza. Una guerra combattuta in trincea, nello sporco e nel fango, in cui si pagavano prezzi altissimi in termini di risorse e, soprattutto, vite umane per strappare al nemico pochi metri sul campo di battaglia. Sul fronte italiano, inoltre, la guerra era combattuta in luoghi impervi e spesso inaccessibili che, sebbene offrisse maggior riparo ai soldati rispetto ai terreni pianeggianti del fronte occidentale (dove si affrontavano francesi e tedeschi), rendeva ancora più complicato strappare al nemico punti strategici e dare una svolta decisiva a conflitto. Difficile, ma non impossibile. Perché a Caporetto, oggi piccolo paese sloveno, accadde proprio questo.

L’esercito italiano, indebolito da una serie di lunghe battaglie in zona e colto impreparato a causa di una mancata organizzazione e difficoltà di comunicazione da parte dei piani alti, non ressero l’impatto dell’attacco di un esercito austro-ungarico altresì indebolito ma coadiuvato da reparti dell’esercito tedesco giunti in soccorso dal fronte orientale, che iniziava a non costituire più un problema dato il disimpegno russo, alle prese con problemi interni. L’esercito italiano pagò i seguenti costi: almeno 10000 morti, 30000 feriti e poco meno di 300000 prigionieri, oltre a un milione di profughi italiani che furono costretti a scappare dai 14000 chilometri quadrati di territorio conquistato dalle forze imperiali.  Le forze italiane, in estrema difficoltà, riuscirono a riorganizzarsi e a resistere a oltranza sul Piave, finché terminò l’offensiva austro-tedesca il 12 novembre.

Nel frattempo, la sconfitta aveva avuto ripercussioni anche in politica, con il cambiamento del Primo Ministro italiano (Vittorio Emanuele Orlando subentrò a Paolo Boselli), alcuni ministri e il Generale del Corpo d’Armata: Armando Diaz prese il posto di Luigi Cadorna. Diaz fu estremamente abile nel rimotivare delle truppe estremamente indebolite nel morale e, parte di esse, invaghite delle suggestioni che provenivano dalla concomitante Rivoluzione Russa. Ecco perché la Battaglia di Caporetto è diventata proverbiale nel linguaggio italiano e non solo.

Tuttavia non è l’unico caso. Si può scommettere che, proprio quei soldati che combattevano sul fronte, avessero voluto descrivere quello che stava succedendo nei primi momenti della Battaglia, avrebbero detto: ‘Sta succedendo un Quarantotto!’. Il riferimento è ovviamente al 1848, un anno cruciale nella storia d’Europa. La prima metà dell’Ottocento è percorsa da moti rivoluzionari: il biennio ’20-’21 fu il primo di questi moti, seguito da quelli del ’30-’31 e infine quelli del ’48. Questi ultimi furono percorsero pressoché l’intero continente, che era percorso da fremiti rivoluzionari in ogni dove: fu un periodo certo carico di entusiasmo, per alcuni, ma, per molti, anche un periodo di grandi incertezze. Per tutti, fu un periodo di grande confusione. Il primo moto rivoluzionario fu in Italia, in Sicilia, il 12 gennaio. E poi si diffuse: Napoli, Milano, Torino (in quest’occasione fu promulgato lo Statuto Albertino), Parigi, Vienna, Budapest, fino a raggiungere la Polonia e la Germania.

Si scatenarono guerre, rivoluzioni, molte soffocate nel sangue, cambiarono governi e regimi. L’impatto, comunque lo si voglia vedere, fu devastante e servì a porre le basi per eventi storici successivi, come l’Unità d’Italia o l’Unificazione tedesca. Un grande impatto in questi moti lo ebbero le agenzie di stampa, che hanno, per la prima volta nella storia, aiutato a propagare le notizie in tempo pressoché reale (per quello che può essere il concetto di ‘tempo reale’ nel XIX secolo) e che, in questo modo, incoraggiavano coloro che volevano rivoltarsi a seguire l’esempio degli abitanti di quella città lontana, di cui hanno letto proprio stamattina al caffè. Ecco che i mezzi di informazione fanno il loro, pur timido, ingresso nella storia.

Il nostro Cadorna, una volta destituito, fu sicuramente costretto ad ‘andare a Canossa’. Ecco un altro modo di dire. Qui però bisogna fare un salto molto più indietro e arrivare a cavallo fra Alto e Basso Medioevo, in piena lotta per le investiture. Con la locuzione ‘lotta per le investiture’ s’intende quel conflitto politico-diplomatico, ma non solo, che coinvolgeva i due poteri massimi attorno a cui ruotavano le esistenze degli uomini medioevo: l’Impero e la Chiesa. Oggetto del contendere, per farla breve, era l’investitura dei vescovi: erano figure religiose che esercitavano il potere politico, temporale, sulle diocesi. Chi doveva scegliere i vescovi, l’Autorità religiosa (essendo figure religiose) o l’Autorità imperiale (esercitando un potere temporale)? La domanda non ebbe risposta per lungo tempo e fu difficile trovare un pur fragile compromesso. In questo contesto, Papa e Imperatore conducevano la propria battaglia, finché, nel 1077, Papa Gregorio VII scomunicò l’Imperatore, Enrico IV. La scomunica era un atto di un’estremità inaudita, perché, escludendo l’Imperatore dal corpo dei fedeli, scioglieva, in effetti, i sudditi dall’obbligo di ubbidienza e il potere di Enrico IV era in serio pericolo. Per questa ragione, l’Imperatore tentò la mossa della disperazione: durante il soggiorno del Papa presso Matilde di Canossa, donna molto influente dell’epoca, Enrico IV si presentò alle porte del castello scalzo e in abiti da penitente e resistette per tre giorni fuori al freddo e al gelo, finché, con la mediazione di Matilde, il Papa gli concesse il perdono e revocò la scomunica. Avvenuto l’evento, fatto il proverbio: da allora, ‘andare a Canossa’ significa umiliarsi al fine di ottenere il perdono, qualora non lo si usi per indicare che si stia andando effettivamente nella località oggi in provincia di Reggio Emilia.

Boselli, d’altro canto, dopo aver appoggiato le strategie di Cadorna, fu costretto a dimettersi e a ‘passare per le Forche Caudine’, andando a consegnare le dimissioni direttamente da Re Vittorio Emanuele III. Il riferimento, forse, è un po’ più oscuro. Siamo nel 321 a. C., nell’età della Roma repubblicana. La città dei sette colli è in piena espansione, ma è ancora lontana dall’essere quell’entità che estende il proprio dominio su tre continenti. In lotta per mantenere l’egemonia nel centro Italia, si scontra con la popolazione dei Sanniti, già sconfitta in passato ed ex-alleati. Un’accorta strategia sannitica, attraverso forme estremamente rudimentali ma comunque efficaci di controspionaggio, porta le fila dell’esercito romano in prossimità di Caudio, città oggi scomparsa e non ancora localizzata. Si muove attraverso un passaggio delimitato da due gole (le Forche), ma sorvegliato dai Sanniti pronti all’azione. Passata la prima gola, si avvicinano alla seconda, ma la trovano chiusa dalla presenza sannitica. Voltatisi indietro, i Romani trovano anche la prima gola chiusa dai Sanniti. Sono circondati, sconfitti, umiliati. I Sanniti concessero la resa ai Romani, a condizione che tutti i soldati dell’esercito repubblicano passassero, spogliati dell’armatura e vestiti della sola tunica, con la testa sotto un giogo, come atto di umiliazione estrema. Il morale dell’esercito e della città fu a pezzi: i cittadini romani esposero le insegne del lutto e i soldati romani, vergognandosi, non riuscivano neppure a uscire di casa. Forse, il fatto che Caudio, la città delle Forche Caudine, oggi non si trovi più è perché i Romani, una volta conquistata, l’hanno cancellata dalla storia. Ma non dalla memoria.

Questi sono solo alcuni esempi di come la storia sia diventata parte del linguaggio comune. Non bisogna fare un Quarantotto con questi modi di dire, altrimenti si rischia una Caporetto che neanche passando per le Forche Caudine o andando a Canossa si può risolvere!

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