Domani, 22 gennaio, avrà luogo nella città svizzera di Montreux la conferenza internazionale Ginevra II, nel corso della quale la comunità internazionale è chiamata a prendere delle decisioni per quanto riguarda il futuro della crisi siriana. O meglio, per elaborare le linee guida che stabiliranno quale sarà il ruolo del “resto del mondo” per porre fine alla guerra civile che ha ormai raggiunto le dimensioni di una tragedia umanitaria, che fino ad oggi è costata la vita a 130mila persone. Ma non sarà solamente la Siria, a cui i paesi coinvolti dovranno guardare, ma all’intera regione mediorientale in subbuglio. La recente presa della provincia nord-irachena di Anbar da parte del braccio di Al Qaeda in Iraq, l’ISIS, ha messo in evidenza quanto sia poroso il confine fra Iraq e Siria.
La Conferenza di Pace per il Medioriente Ginevra II, proposta dalle Nazioni Unite, dovrebbe trovare il modo di avviare un processo negoziale fra il governo di Assad e l’opposizione siriana, fino a garantire la costituzione di un governo di transizione dotato di pieno potere esecutivo in grado di riavviare il paese al processo di pace. Stati Uniti e Russia svolgeranno un ruolo determinante, non solo dal punto di vista sostanziale, ma anche da quello formale. Il veto posto da Washington sulla partecipazione dell’Iran al consesso internazionale, è indicativo. Secondo quanto dichiarato dal governo statunitense l’Iran, in quanto non segnatario del documento Ginevra I che prevedeva la costituzione di un governo di transizione, non dovrebbe poter accedere ai lavori di Ginevra II.
Ultime notizie, però, riportano la decisione del segretario generale Ban Ki-moon di accogliere anche Teheran, che sarà dunque presente domani a Ginevra per sostenere il ruolo costruttivo dell’Iran nel contesto siriano. Anche la coalizione nazionale siriana si è dichiarata contraria alla partecipazione del diplomatico iraniano Mohammad Javad Zarif a Montreux, minacciando di boicottare la sua partecipazione alla conferenza internazionale. Dall’Iran ci si aspetta una dichiarazione ufficiale in cui accetta il trasferimento dei pieni poteri esecutivi ad un governo di transizione, questione questa che non è mai stata affrontata con chiarezza e posta nero su bianco da Teheran.
La Siria e l’Iraq, sebbene differiscano nella suddivisione settaria delle rispettive popolazioni, hanno entrambe un passato-presente molto travagliato, segnato da un’escalation della violenza settaria fra la componente sciita e quella sunnita all’interno dei confini, che sta travalicando al di fuori. In Iraq, il malcontento della ex leadership sunnita, spodestata nel 2003 con l’invasione americana e la caduta del regime autoritario di Saddam Hussein, non accetta “l’imposizione” della maggioranza sciita ora al potere. Questo non è un aspetto da sottovalutare, poiché è riscontrabile in tutta la regione. Il “monopolio” di potere sciita, vicino al governo iraniano, sta dando sfogo ad una competizione politica che, come ha già dato atto, sta sfociando in un’escalation di violenza largamente diffusa e difficilmente contenibile.
Per i sunniti iracheni, la caduta del regime di alawita in Siria, rappresenterebbe certamente un vantaggio politico. Il premier iracheno Nouri Al-Maliki, dal canto suo, sta vivendo gli ultimi mesi del suo mandato con cosciente preoccupazione. La mala-gestione della crisi nella provincia di Anbar, sfociata nella presa del territorio delle città di Falluja e Ramadi da parte di Al Qeada, ha dimostrato le falle di un governo poco capace a tenere insieme un paese vittima delle sue stesse divisioni congenite.
Al Maliki ha sempre espresso, nei confronti della crisi in Siria, opinioni tendenzialmente in linea con la comunità internazionale. L’intervento armato sarebbe nocivo, oltre che controproducente, secondo il leader iracheno che propende per la soluzione diplomatica della questione. Una Siria, se non stabile, almeno stabilizzata al confine, implicherebbe sicuramente una gestione più semplice di quanto sta accadendo nella provincia di Anbar. Li, dove l’ISIS ha le sue sedi operative in Siria, il confine poroso fra i due paesi potrebbe aprire una faglia pericolosa. La polizia irachena è paralizzata lungo il confine, incapace di contrastare efficacemente il traffico di armi e uomini fra la Siria a ferro e fuoco, e l’Iraq.
Anche la questione curda, è un punto di contatto fra la Siria e l’Iraq. Il Governo Regionale del Kurdistan iracheno, provincia resasi autonoma da Baghdad, vive un costante stato di tensione con il governo centrale, in particolare sul piano degli accordi commerciali internazionali sulle forniture energetiche. Qualora la regione del Kurdistan iracheno, molto vicina ai curdi siriani, dovesse rafforzare la sua autonomia nella Siria post-Assad, l’Iraq dovrebbe fare i conti con una regione che controlla la maggior parte delle risorse di gas nel paese.
Alla vigilia dell’incontro di Ginevra II, le analisi prospettiche non guardano alla caduta del potere della minoranza alawita di Assad come un fatto certo, o semplice. Le forze alawite mantengono il terreno sulla capitale Damasco, e stanno riguadagnando posizioni nei territori di periferia. Hezbolla, la milizia libanese, sta difendendo la rotta fra Damasco e la costa libanese lungo la Valle del Bekaa, al fine di garantire un corridoio economico con la capitale.
Scetticismo e poca convinzione, accompagnano le ore della vigilia di Ginevra II. Scongiurare la frammentazione della Siria in piccole realtà conflittuali è l’obiettivo, difficile, di questo incontro. La necessità di ristabilire un cornice di sicurezza in Siria è essenziale, secondo gli analisti, onde evitare pericolose ripercussioni esterne in tutta la regione. A cominciare dall’Iraq, che oggi sta vivendo la sua fase più critica dall’allontanamento delle truppe americane.