C’è una quarta vittima dell’incidente stradale di Roma, oltre alle due sedicenni decedute e al giovane investitore, la stampa. La stessa che in quelle ore ci aveva regalato un titolo incosciente su un’altra vicenda drammatica. ‘Morto suicida Ari Behn, scrittore norvegese che accusò Kevin Spacey di molestie’. Un’agenzia, ripresa da tutte le testate e messa in pagina, senza un minimo di riflessione, che induce a stabilire un legame di causa-effetto tre molestie e suicidio.
Il 22 dicembre c’è il tragico incidente nella capitale, analogo ad altri, trattati però in una sola riga. La differenza sta nel fatto che uno dei genitori coinvolti è persona nota, dunque la tragedia diventa evento, cancellando compassione, disperazione, sgomento.
Una stampa libera dovrebbe possedere severi catenacci, altrimenti la sua libertà è solo assenza di regole, arbitrio mascherato da diritto di cronaca.
Questo incidente è stato assai più trattato della spaventosa realtà evocata dai 400 arresti in Calabria, solo qualche giorno prima, e di cui vi darò conto domani.
Due sedicenni morte sul colpo, dopo essere state investite dal Suv, condotto da un ragazzo di vent’anni. Mi accade di ricevere genitori che perdono una figlia, un figlio, il più delle volte a seguito di un incidente stradale, prima causa di morte tra i giovani. È la parte più angosciosa del mio lavoro, sono disarmato, privo di risorse, conscio di trovarmi di fronte all’essenziale, al di sotto del quale c’è solo buio, spazio vuoto, abisso. Un genitore sa che è difficile scavare oltre, dovrebbe saperlo anche chi fa informazione, altrimenti deve cambiare mestiere.
Ecco perché non ci sono parole da dire alle mamme e ai papà di Gaia e Camilla, forse neppure a quelli di Pietro, per i primi non esistono rimedi, la morte è irreversibile, i secondi dovranno affrontare tutto ciò che il loro figlio non è in grado di affrontare in questi momenti, praticamente tutto, cercando di rimetterlo al mondo. Privilegiati, in fondo, perché potranno. Toccherà a loro cercare di chiudere la ferita, sebbene sappiano che mai ci riusciranno e che quelle ragazzine visiteranno spesso i lori sogni, costringendoli a riscrivere tutte le sceneggiature, ma anche questo sarà vano, perché ciò che doveva succedere è successo e non può essere cambiato.
Un giorno, a Milano, avevo assistito alla proiezione di un film del 1973, ‘La rabbia giovane’. Terrence Malik, il regista, uscì dalla sala quando si spensero le luci e rientrò quando si riaccesero. Ce ne spiegò la ragione con molto garbo, rispondendo alla domanda di uno dei presenti. «Non rivedo mai i miei film, temo di trovare dei difetti che oramai non posso più correggere».
Possiamo guardare il passato in modo diverso, non saremo però in grado di cambiare la sua essenza, le cose sono e restano, potremo persino individuarne gli errori, le falle, le ferite o addirittura reperire un qualche ristoro, ma niente potrà cancellarlo. Resterà aperto, e tuttavia questo darà ad esso il privilegio della speranza, solo così le vie che sembravano aspre cominceranno a mostrare paesaggi nuovi, che prima dell’evento catastrofico erano insospettabili.
Non bisogna disperare. La genitorialità si nutre così, senza illusioni, ripensando a opere e omissioni, che non abbandoneranno il passato, ma i cui insegnamenti potrebbero raggiungere il futuro, rendendolo diverso, forse persino migliore.
I tre ragazzi protagonisti di questa tragedia, ciascuno vittima in qualche modo, sembrano fluttuare nelle spire di un mondo tutto loro, percorso da inquietudini ignote a noi adulti, che sovente interveniamo tirando a indovinare, per questo il vallo che separa i grandi dai ragazzi è ampio, in aumento, colmo di sviste. Ne avevo parlato un paio di anni fa in ‘Quello che non vedo di mio figlio’ e poi nei ‘Superconnessi’, torno a ragionarne tra venti giorni con ‘Tutti bulli’, anche qui per chiedere agli adulti la ragione per la quale una società violenta, mai così violenta, vorrebbe processare i ragazzi.
Tutti, adulti e ragazzi, risucchiati in un movimento accelerato, irresistibile, in cui la misura si smarrisce. Norme, semafori e strisce pedonali non esistono più e la prudenza cede il passo all’illusione dell’immortalità, assai presente nelle esistenze inquiete degli adolescenti, e tutto sembra reggere, ma solo fino a quando le strade si incrociano e il movimento relativo paleserà l’insostenibile velocità a cui giriamo.
Pietro correva, Gaia e Camilla correvano, forse i loro genitori correvano, è la vita che ci spinge nel caos fino a farci precipitare nello stesso punto, simultaneamente, e non c’è spazio per tutti. Proprio così, non c’è spazio, e qualcuno viene sacrificato.
Educare oggi è diventata un’impresa improba, a questi regimi è quasi impossibile, dovendo fare i conti con mille interferenze della realtà e persino con quei pazzi criminali che vorrebbero abbassare a 16 anni l’età utile a conseguire la patente, ma niente può diventare un alibi. Ampliare la platea dei consumatori, primo, o forse unico, comandamento di un delirio, che però non avvertiamo come tale, perché è un delirio, patologia senza autocritica.
Nei comportamenti di quelle tre povere creature ci sono le fragilità tipiche della gioventù, ma soprattutto il limite micidiale dell’egocentrismo, l’incapacità di mettersi nel punto di vista del prossimo, così Pietro si è mosso come se fosse stato su una strada deserta, mentre le due ragazze si sono buttate nella tonnara come se gli automezzi dovessero sparire al loro passaggio. Quei genitori, sfortunati tutti e sei, sono la sintesi di noi, la loro vicenda ci ricorda che se vogliamo conservare il diritto a procreare, dobbiamo prima accettare l’idea che educare rende impopolari, deve rendere impopolari, altrimenti è solo pericolosa complicità.
Io credo, lo dico con affetto sincero, che Pietro non doveva avere in mano quell’automobile, c’erano stati segnali premonitori, e che quelle ragazze non dovevano osare quell’azzardo mortale. Ma l’ansia, potentissima, di essere ‘visti’, considerati, amati, li rende audaci fino alla spericolatezza e col pensiero fisso di loro stessi, solo di loro stessi.
Ci sono state delle carenze pedagogiche, parla il padre più che l’analista, ma si annidano in tutta la filiera, stampa inclusa, e se non ci sarà una presa di coscienza generale sulle responsabilità del compito educativo che abbiamo di fronte, che mai era stato così aspro, perderemo rovinosamente. Un compito, è ora di dirlo, che non può essere più solo in capo ai genitori, troppo complesso il brodo in cui oramai nuotiamo. Ci si salva insieme o si soccombe tutti.
Un figlio è diventato una foto che invecchia rapidamente, quella del giorno prima ci ingiallisce tra le mani. Occorre uno sforzo collettivo per venirne a capo, bisogna capire di più e giudicare di meno.
La stampa si è mossa in direzione contraria, mancando un’occasione delicatissima, non più soggetto terzo, ma attore del pettegolezzo perpetuo che promuove gli istinti e mette in mora la ragione.
Ci aspettiamo che essa ci aiuti a tenere desta nelle nuove generazioni la nostalgia per una realtà diversa, in cui gli altri non sono comparse, strumenti al nostro servizio, ma la ragione stessa di tutto ciò che abbiamo costruito.
In quella disgraziatissima serata di dicembre è mancata proprio la percezione dell’altro, è venuta meno la certezza che quell’asfalto fosse popolato da tanti consimili, ansiosi di vivere, vogliosi di gioire. Desiderosi anch’essi di essere riconosciuti.
Tutti avevano una meta, che però non teneva conto di quella altrui. Sembra poco, ma è tutto qui. Proprio ciò che i mezzi di informazione, troppo impegnati a indugiare sull’identità di alcuni protagonisti, si sono lasciati sfuggire, abbandonando sul terreno quei teneri virgulti agonizzanti.
Ora, forse, viene il peggio. Vedo profilarsi sullo sfondo ingombranti principi del foro, chiamati a muoversi sulle spoglie di Camilla e di Gaia, sulla disperazione di chi è rimasto. Spero sappiano dove mettere i piedi e spengano le luci della ribalta.