‘Dimmi cos’è’. Era l’attacco di una canzone molto bella di Antonello Venditti, una di quelle che il cantautore romano e romanista ha dedicato alla sua squadra di calcio. E si sente che è vera. Si sente perché vibra di una passione autentica, viscerale.
L’incipit di cui sopra, in un certo senso, dice già molto di quello che c’è da dire, se proprio vogliamo parlare dell’ennesima, insopportabile notizia che preannuncia arresti e nuove inchieste sulle partite di calcio truccate. Si vocifera di serie A, di grandi squadre coinvolte, di un gruppo di criminali pronti ad alterare, con profitti che si immaginano colossali, anche il prossimo campionato del mondo in Brasile. I tifosi e gli sportivi italiani, quorum ego, languiscono in uno stato di mitridatizzazione che quasi impedisce ormai l’insorgere del sentimento più in voga nel nostro Paese, l’indignazione.
Dimmi cos’è, diceva Venditti. E non lo so, cos’è. Mi ricordo solo che quando, da ragazzino, vidi per la prima volta in vita mia, dopo una lunga scalinata in salita, apparire quella spianata verde, brillante, molto più verde e più brillante di quanto mi aspettassi, il cuore per un attimo si fermò. In quel momento, ne sono certo, fui felice. Poi la partita, i giocatori, le bandiere, i colori. Le parolacce, gli insulti, la gioia, il dolore, le risse. Tutta roba vera, cose umane al cento per cento. Un condensato di vita senza le parti noiose, come diceva Hitchcock parlando del cinema.
Il calcio come tifo, è una delle cose che tira una riga netta tra chi è dentro e chi è fuori. Questi ultimi guardano i primi come dei minus habentes, non dandosi pace del fatto che persone ritenute serie e affidabili possano rivelarsi imprevedibilmente schizofreniche. Questo fatto li lascia spiazzati, e con un senso di superiorità inatteso quanto fallace.
I primi sono infatti consci della propria condizione. E la forza di questa consapevolezza fa sì che non sentano minimamente il larvato disprezzo che su di loro aleggia e, anzi, se ne fanno beffe allegramente. Perché sanno che, in fin dei conti, a loro è concessa la grazia di una fede che quegli altri neanche sospettano esistere, e che riserva a loro soli il godimento di un’esperienza esclusiva.
Una fede, ho detto. Ecco la parola chiave. Solo la fede permise ai martiri cristiani, ai monaci tibetani e a chissà quanti altri di sopravvivere a terribili persecuzioni . Deve esserci dunque un barlume di questa infantile virtù, che sostiene il popolo dei tifosi di calcio, quando i colpi delle notizie di cronaca smantellano come colpi di mortaio la cattedrale piena di luce che essi conservano in cuori ancora bambini.
Il meccanismo della rimozione scatta in modo evidente. Come sarebbe altrimenti possibile leggere per l’intera settimana di brogli schifosi, di angeli caduti nella fanga più putrida, di truffe ignobili intessute senza pudore sulla credulità popolare ed arrivare al week end tranquillamente seduti in poltrona, o addirittura urlanti allo stadio, senza traccia di ferite mortali nell’animo?
Non durerà in eterno, certo. Il disamore serpeggia anche nelle file degli irriducibili romantici, la goccia sta facendo il suo lavoro silenzioso ma costante sul granito più duro, e prima o poi lo ridurrà come altre gocce, o torrenti più impetuosi, hanno ridotto la parte migliore del nostro paese: una nazione sfiduciata, groggy, incapace di reagire.
Con una differenza però, nel caso di noi poveri tifosi. Noi, sciocchi creduloni, continueremo sempre a sentirci molto, molto migliori di quei ladri di polli senza dignità umana che ci hanno tolto anche questa ultima piccola ragione di vita.