Sono prodotti della finanza etica, anzi, dell’etica applicata alla finanza. Il termine per definire i bond islamici, sukuk, significa letteralmente “strumenti” e quindi è implicito il concetto di raggiungimento di un fine, perché uno strumento serve sempre per fare qualcosa. L’etica deriva dalla cultura islamica, per la quale non è possibile realizzare prestiti a interesse (riba) e non ci può essere incertezza irragionevole (gharar): lo vieta il Corano così come impedisce investimenti in bevande alcooliche, carne di maiale, gioco d’azzardo, tabacco, pornografia. Ecco perché sono stati creati i sukuk, cioè dei titoli che danno il diritto di partecipare a un finanziamento per un progetto ben definito e incassarne gli utili. Ecco qual è la differenza rispetto ai bond tradizionali, dove l’emittente non specifica che cosa farà con i soldi ottenuti dai sottoscrittori.
Per superare l’esame di conformità alla shari’a, la legge islamica, è necessario rivolgersi a specifici esperti, come spiega Rony Hamaui, docente del Nuovo Istituto di Business Internazionale nell’ambito del Business Focus Mediterraneo e Medio Oriente e Professore di economia monetaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: “Come succede per tutta la finanza islamica, anche i sukuk devono avere il bollino di approvazione da parte di esperti islamici, degli imam, riconosciuti a livello internazionale. Appartengono a scuole particolari, ovviamente di formazione religiosa. Non è semplice ottenere il loro ok, per esempio ora Goldman Sachs sta emettendo un proprio sukuk, ma ci aveva provato già tre anni fa e l’iniziativa era stata bocciata da questi esperti, quindi la società ha dovuto rifare tutto da capo e dopo due anni sembrerebbe che ce l’abbia fatta”.
Per approntare uno strumento del genere, anche prima di sottoporlo al vaglio degli esperti, sono necessari molti passaggi e non tutti sono semplici, prosegue Hamaui. “Per prima cosa, devi costruire una struttura complessa come una securitizzazione, ci devono essere dei flussi e devono prevedere soltanto attività riconosciute dalla shari’a. Se vuoi arrivare fino in fondo devi costruire una struttura solida e farla controllare, devi passare attraverso banche che hanno una capacità di piazzare questi titoli. Ancora oggi è un prodotto di nicchia, anche se è in forte crescita”.
Secondo le stime di PricewaterhouseCoopers, colosso della consulenza mondiale, gli investimenti relativi ai sukuk raggiungeranno i 2.000 miliardi di euro entro il 2017, anche se il momento dei mercati non sta aiutando questa accelerazione secondo Hamaui. “Ora c’è troppa liquidità sul mercato, i sukuk soffrono la concorrenza di tutta questa liquidità perché emettere un bond ora è facile e molte società ritengono inutile andare a cercare complicazioni. Detto questo, è anche vero che rimane un mercato in crescita, i prezzi del petrolio rimangono alti e nella maggior parte dei Paesi islamici ci sono moltissime società che vogliono investire attraverso i sukuk”.
Tanto che da Londra, il centro finanziario europeo per eccellenza, hanno fatto di voler puntare su questi strumenti. Durante il World Islamic Economic Forum dello scorso novembre, il Premier britannico David Cameron ha chiarito il proprio piano: «Non voglio soltanto che Londra diventi la capitale della finanza islamica nel mondo occidentale, vogliamo che Londra stia al fianco di Dubai tra i grandi centri internazionali per questo tipo di finanza». La Gran Bretagna, ha proseguito Cameron, non è come le altre nazioni «che tirano su il ponte levatoio e rifiutano di ammettere che il mondo è cambiato», e di sicuro «non farà questo sbaglio».
A dire la verità circa il 60% dei sukuk mondiali viene emesso dalla Malesia, stando a quanto riporta il Malaysia International Islamic Financial Centre, solo dopo vengono Dubai e Kuala Lumpur, ma la sostanza di quanto affermato da Cameron non cambia. I sukuk, chiarisce Hamaui, sono una grande opportunità sia per gli emittenti che per i sottoscrittori. “Come per tutte le cose, dipende da che parte guardiamo la questione. Il sottoscrittore, in quanto musulmano, è in possesso di molti liquidi e vuole acquistare qualcosa che si avvicini il più possibile alla propria etica, quindi si rivolge ad appositi fondi di investimento. Per l’emittente occidentale l’interesse è per lo più di tipo opportunistico, in senso buono, perché così facendo si fa conoscere su un mercato dove prima non era presente: oggi può raccogliere finanziamenti a prezzi vantaggiosi e soprattutto domani potrà stringere altri accordi, aumentando così il proprio peso in una zona sempre più importante per l’economia e gli investimenti. Credo che il governo inglese abbia fatto questa scelta dei sukuk per motivi politici”.
Ma non è soltanto il Regno Unito a farsi avanti, in Europa ci sono già altre nazioni pronte a offrire la propria disponibilità, continua Hamaui: “L’Irlanda è molto interessata a diventare il centro di negoziazione dei sukuk per l’Europa e per il mondo intero, al di fuori dai paesi islamici, mentre il bond di Goldman Sachs verrà negoziato in Lussemburgo“. Nell’aprile dello scorso anno, durante l’apertura del quarto Forum della Finanza Islamica tenutosi in Banca d’Italia, il governatore della Ignazio Visco aveva sintetizzato il pensiero di Via Nazionale: «L’opportunità di attrarre capitali stranieri e l’intensità di legami commerciali e finanziari con la sponda sud del Mediterraneo rende sempre più importante, per il nostro Paese e il suo sistema finanziario, essere preparato alla conoscenza e agli strumenti operativi per interagire con quei sistemi che obbediscono ai principi della finanza islamica».
Peccato che a quelle buone intenzioni non siano seguiti i fatti, soprattutto per questioni che vanno oltre le scelte operative, precisa Hamaui: “L’Italia ha pensato qualche volta a ricorrere ai sukuk, ma poi ha preferito non farlo perché non ha ritenuto che fossero abbastanza liquidi. Magari un domani, in un clima politico e culturale diverso, potrebbe accadere. Oggi non credo che nel nostro paese il clima culturale e politico sia favorevole a sostenere un’operazione di questo tipo, anche perché servirebbero molto tempo e un impegno chiaro“. Per le aziende italiane invece la questione è diversa, conclude Hamaui: “Non hanno mai preso in considerazione questa ipotesi, si stanno affacciando ora sul mercato obbligazionario normale, sarebbe come un doppio salto carpiato. Lasciamo che facciano un passo alla volta”.