Colpo di Stato militare a Myanmar. L’Esercito ha arrestato il Premio Nobel per la pace 1991, de facto alla guida del governo dal 2016, Aung San Suu Kyi, il Presidente Win Myint e i vertici della National League for Democracy (Nld), che aveva vinto le contestate elezioni di novembre, e preso il potere.
Tutti i poteri sono stati trasferiti al capo delle forze armate Min Aung Hlaing, che sarà alla guida del Paese per un anno. La presidenza ad interim sarà invece ricoperta dal generale in congedo e vice presidente Myint Swe.
I militari hanno spiegato di aver agito per riparare ai ‘brogli elettorali’. Interrotte le trasmissioni della tv di Stato, mentre sono chiuse le banche. Nel Paese è stato proclamato lo stato di emergenza di un anno. Le strade della capitale, Nay Pyi Taw, dove da ieri sono interrotti i collegamenti telefonici, sono piene di militari.
Proprio oggi avrebbe dovuto insediarsi il Parlamento, frutto delle elezioni legislative di novembre, con la National League for Democracy (Nld), guidata da Suu Kyi, come forza di maggioranza. Alle legislative dell’8 novembre la National League for Democracy aveva ottenuto circa l’83 per cento dei voti.
Il Myanmar è stato governato dall’Esercito per decenni, fino al 2011. Anche in seguito i militari hanno mantenuto un ruolo di controllo e indirizzo, impedendo ad esempio a Suu Kyi di ricoprire l’incarico di Presidente.
La Premio Nobel era stata accusata dalle diplomazie occidentali di avere posizioni troppo concilianti verso i vertici militari, in particolare rispetto al conflitto nella regione occidentale di Rakhine e alle conseguenze delle offensive dell’Esercito nelle aree dove si concentra la minoranza dei Rohingya, di religione musulmana. La messa sotto accusa per la vicenda aveva tenuto banco negli anni scorsi macchiando, forse irrimediabilmente, l’immagine di Suu Kyi.
Di seguito ripubblichiamo un servizio del settembre 2017 proprio sulle accuse che gettano una pesantissima ombra sulla Premio Nobel. Si tratta di una intervista realizzata con il professor Stefano Pelaggi, Docente di Nazionalismi e Minoranze Etniche presso l’Università La Sapienza.
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Per motivi professionali ha avuto modo di conoscere e studiare da vicino lo stato delle cose, può raccontarci il suo punto di vista?
La vicenda dei Rohingya parte da molto lontano, si tratta di un gruppo etnico di religione islamica. La maggior parte si spostò dall’attuale Bangladesh nella regione del Rakhine durante il dominio britannico, dal 1824 agli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Il Regno di Arakan, l’attuale Rakhine, era stato conquistato dalla Birmania appena quaranta anni prima della occupazione britannica, si tratta di una regione con radicati sentimenti indipendentisti, una specificità storica e linguistica ben definita e una forte tradizione buddista che permea qualsiasi aspetto della vita sociale e politica. Nel 1948 quando la Birmania ha ottenuto l’indipendenza dal dominio coloniale britannico ai Rohingya fu concesso di chiedere la cittadinanza birmana ma con il colpo di stato militare del 1962 i Rohingya persero qualsiasi status, diventati di fatto stranieri nella terra che avevano abitato da secoli. Il supporto dei Rohingya durante la dominazione coloniale britannica e la religione islamica in una regione fortemente incentrata sul buddismo hanno alimentato continue tensioni in tutti questi anni. Tensioni a cui si sono aggiunte varie ondate di repressione, guidate dai militari nei confronti dei Rohingya, che determinarono una serie di flussi migratori verso il Bangladesh. I flussi più consistenti avvennero nel 1978 e nel 1992 con un totale di rifugiati stimato intorno agli 800.000, cifre mai verificate da nessuna organizzazione internazionale a causa dell’impossibilità di operare nel territorio del Myanmar. Il Bangladesh ha inizialmente accolto i rifugiati dalla Birmania, ma le pressioni interne e le limitate risorse nazionali hanno costretto Dhaka a spingere i Rohingya a lasciare i campi profughi. Negli ultimi anni la situazione è andata via via peggiorando, senza nessun tipo di intervento da parte delle organizzazioni internazionali. Le ragioni sono molteplici, principalmente un intervento diretto nel Paese avrebbe potuto compromettere l’imminente transizione democratica del Myanmar, fornendo ai militari una ulteriore occasione per rimanere al potere.
Paradossale la posizione nella quale si trova oggi il Premio Nobel per la Pace ’91 Aung San Suu Kyi, per un quindicennio trattenuta in condizioni restrittive dalla giunta militare birmana, poi divenuta simbolo della svolta democratica del Myanmar. In realtà, si viene a rilevare successivamente la natura delle condizioni poste al Premio Nobel (ed al Parlamento birmano) proprio dai militari. Ed è difficile valutare quanto oggi in certi atteggiamenti pubblici del Premio Nobel e della maggioranza della popolazione del Myanmar sia risultato di tale imposizione dei militari e quanto sia parte dello stesso tessuto culturale ed etno-antropologico birmano nei confronti della Comunità dei Rohingya. Una Comunità alla quale non viene riconosciuto alcun diritto di cittadinanza, anzi, viene definita come un ‘corpo estraneo’ dal punto di vista etnico (Bengali). Qual è il suo pensiero a riguardo?
Il Myanmar è un sistema culturale e politico molto complesso, ci sono 135 distinti gruppi etnici che vengono per semplicità raggruppati in 8 gruppi principali. Questi gruppi sono tutti localizzati in un determinato territorio, parlano una propria lingua ed in molti casi sono in conflitto da secoli con l’etnia Bamar che detiene il potere politico da sempre il potere politico nel territorio dell’attuale Myanmar. Alcuni di questi gruppi portano avanti una guerriglia da decenni, Karen, Shan e Kachin tra gli altri, mentre altri gruppi come i Kokang e gli Wa hanno un controllo totale del territorio e dispongo di carri armati e contraerea. All’interno di questo quadro la situazione dei Rohingya è ancora più complessa, da sempre il regime militare ha sostenuto la narrazione della totale estraneità della etnia di religione islamica rispetto al mosaico che compone l’identità birmana. L’elezione di Aung San Suu Kyi non ha cancellato decenni di indottrinamento e informazione sulla questione Rohingya, la percezione della popolazione birmana rimane fortemente orientata e non ci sono le condizioni nel breve termine di cambiare questa situazione. Le dimostrazioni in piazza in supporto di Suu Kyi di questi giorni ma anche il supporto incondizionato degli intellettuali birmani, anche quelli che hanno vissuto in esilio negli ultimi anni, ci consegnano l’immagine di un Paese convinto della totale estraneità dei Rohingya al mosaico etnico del Myanmar.
A livello internazionale l’immagine di Aung San Suu Kyi è pesantemente colpita da un evidente ostracismo birmano nei confronti dei Rohingya. Il Premio Nobel continua a trincerarsi dietro affermazioni per le quali si tratta solo di mistificazione mentre le testimonianze ed i documenti che la sconfessano si fanno sempre più macroscopici. I militari hanno coscienza del fatto che – a livello internazionale – l’immagine del Myanmar tutto (e non solo di Aung San Suu Kyi-icona di democrazia) è in forte ridiscussione? Si rendono conto che rischiano di poter vedere nuovamente imposto un regime di sanzioni che possono sfiancare il Myanmar come è accaduto proprio per chiedere la liberazione di Aung San Suu Kyi e per la restaurazione della democrazia nel Paese? Si rendono conto del fatto che il commercio (soprattutto internazionale) di una Nazione emergente qual è il Myanmar oggi, potrebbe andare a carte quarantotto in tempi molto brevi?
La figura di Aung San Suu Ky ha avuto lo straordinario merito di attirare l’attenzione dei media occidentali e di catalizzare le aspettative del popolo birmano. Tutta la popolazione del Myanmar nutre una forte speranza nella sua opera di rinnovamento e il suo carisma è stato assolutamente indispensabile per la transizione democratica del paese. Va comunque registrato che Suu Kyi non si è mai espressa direttamente nei confronti dei Rohingya, ha deliberatamente evitato di mettere nelle sue liste elettorali qualsiasi persona di religione islamica, anche coloro che non appartengono all’etnia in questione. La questione Rohingya è altamente impopolare all’interno dell’opinione pubblica del Paese, Suu Kyi avrebbe la forza per tentare di imporre una nuova visione della vicenda ma si tratterebbe di una dinamica rischiosa. Il potere dei militari è ancora determinante, il nazionalismo buddista sta conoscendo una grande diffusione in un periodo di relativa liberalizzazione della comunicazione pubblica e la leader birmana non vuole mettere a repentaglio la relativa tenuta politica del Paese per una vicenda che reputa secondaria e minoritaria. La situazione dei Rohingya è ad oggi drammatica, pensare ad un intervento risolutivo è praticamente impossibile. Un eventuale intervento internazionale andava fatto almeno cinque anni fa, ormai ci troviamo di fronte ad una emergenza conclamata che purtroppo potrà solo peggiorare. La responsabilità di Suu Kyi è innegabile, ma marginale rispetto al quadro generale della situazione che ha ereditato. L’immagine di un premio Nobel per la Pace che deliberatamente volta le spalle di fronte ad una emergenza umanitaria e a migliaia di vittime civile è qualcosa di difficile da digerire per l’Occidente. Ma andrebbe letta come l’ennesimo tassello dell’immagine di Aung San Suu Kyi, dopo aver sacrificato decenni della sua vita per il ritorno della democrazia in Myanmar non esita a sacrificare i destini di migliaia di persone per mantenere l’unità politica e sociale del paese. Un esempio di realismo politico tutto asiatico che deve necessariamente essere inserito nella cornice interpretativa della cultura birmana. Il complesso quadro istituzionale del paese, con i militari che di fatto detengono ancora un potere importante, costituisce ovviamente un grande ostacolo. Una eventuale azione per alleviare le sofferenze dei Rohingya, oltre ad contrastare il suddetto approccio culturale della popolazione birmana, si troverebbe di fronte ad una opposizione dei militari rischiando di minare il delicato processo di transizione del Myanmar.
Il Myanmar è in una posizione strategica anche dal punto di vista geografico, oltre che geopolitico. E’ una Nazione-cerniera. Con la Thailandia ci si è ‘accordati’ de facto su un certo pragmatismo tutto asiatico: commercio di pietre preziose, rubini soprattutto, senza guardare troppo per il sottile circa il lavoro minorile. I rifugiati non esistono in quanto a definizione, la Thailandia respinge tutti, per terra e per mare. E chiude così la questione. Il Bangladesh riceve forzosamente masse di popolazione Rohingya in fuga ma ha già detto che rischia di collassare, stante la carenza di supporto internazionale. Intanto in Myanmar investono fattivamente USA, Cina, Giappone, Sud Corea. Alcuni paventano che il ‘peso’ di Nazioni quali India, Cina e USA possa ri-disegnare l’insieme dei rapporti di forza in quell’area (da registrare un certo silenzio da parte della comunità islamica mondiale almeno fino ad oggi). Nel breve e nel medio periodo cosa potrebbe accadere, in tal senso, dal suo punto di vista?
La posizione geografica del paese tra Cina e India, le nazioni più popolose al mondo e i due centri economici della regione che si sta delineando come il vero e proprio epicentro del futuro, basta a disegnare gli equilibri politici del Myanmar. L’influenza cinese sul paese è fortissima, tutto il processo di transizione democratico è avvenuto sotto l’occhio vigile, e con l’approvazione, di Pechino. Il primo viaggio all’estero di Aung San Suu Kyi, nei mesi immediatamente precedenti l’elezione, fu proprio in Cina e in una delle prime interviste pubbliche al Washington Post dopo la vittoria elettorale il Premio Nobel minimizzò l’influenza statunitense ed europea nel processo di transizione democratica, rilevando la necessità di un costante colloquio con Pechino. La presidenza Trump sembra poi molto lontana dagli sforzi volitivi di Obama per una influenza di Washington nel paese, ad oggi il futuro del Myanmar è sempre più legato ai rapporti con Cina, India e Russia. Un legame naturale che parzialmente spiega anche il comportamento di Suu Kyi nei confronti della persecuzione dei Rohingya, nonostante gli investimenti l’Occidente è sempre più lontano dal Myanmar.