Le esportazioni di armi e munizioni dal Canada fra il 2011 e il 2012, avrebbero subito un’impennata del cento per cento verso Paesi come Iraq, Bahrain e Algeria. Questi i dati resi pubblici in un’analisi del ‘The Canadian Press’, diffusa domenica scorsa e che ha già fatto il giro dei media internazionali. Secondo il rapporto in questione, le esportazioni dell’industria degli armamenti canadese avrebbe tra i suoi primi stakeholders Pakistan, Messico, Egitto, ai quali si sarebbero appunto aggiunti anche Iraq, Bahrain e Algeria. Tutti Paesi, questi, con un livello di rispetto e protezione dei diritti umani indubbiamente sotto la norma, ancorché molti sono diffusamente riconosciuti come focolai del terrorismo di matrice islamica su scala internazionale.
Da qui, una serie di voci di accusa hanno accompagnato la notizi. Il Canada è stato tacciato di favorire il rifornimento di armi laddove sono in corso crisi politiche e umanitarie di considerevole entità, alimentando indirettamente il permanere di uno status quo poggiato sulla violenza, sul conflitto e sulla criminalità organizzata. Il commercio internazionale di armi da parte canadese, assicurano gli esperti, è perfettamente in linea con la regolamentazione internazionale e nazionale in materia. La questione, dunque, non riguarda una eventuale responsabilità giuridica di Ottawa, che non è messa in discussione, quanto piuttosto le scelte di politica estera del paese. Il nodo della questione, dunque, non sarebbe il “si può fare”, ma il “perché lo si fa”.
I tre Paesi coinvolti nell’esportazione di armi di Ottawa, sebbene non siano paragonabili fra loro sotto molti aspetti, sono certamente accomunati da un tessuto sovrastrutturale a rischio. Da un lato abbiamo l’Iraq, nel cuore del Medio Oriente a ferro e fuoco, Paese che oggi cerca una via per la stabilità all’interno di un processo di transizione difficile e violento. Esce dalla leadership totalitaria di Saddam Hussein, che negli anni ottanta ne fa uno dei centri di riferimento e potenza regionale. Peso geopolitico delPaese che ha oscillato, nell’ultimo ventennio, fra una forte vicinanza con gli Stati Uniti e il mondo occidentale in chiave anti iraniana, fino all’invasione del Kuwait che diede seguito alla prima Guerra del Golfo a cavallo fra il 1990 e il 1991.
La storia recente del Paese è nota, nel 2003 l’invasione statunitense mette fine al regime di Saddam ed oggi una prima fase di ‘self government’ segue il ritiro pressochè totale delle truppe americane dal territorio. Auto-governo difficile, quello iracheno. Oggi la politica estera irachena si muove verso un tentativo di normalizzazione con tutti gli altri paesi che hanno voce nella regione. A cominciare dalla Turchia, amico-nemico, i cui rapporti bilaterali sono caratterizzati dalla tensione derivante dall’irrisolta questione curda. Anche la Siria, vicina di casa in piena guerra civile dal 2011, è una controparte difficile per l’Iraq. Mentre le relazioni irachene con i paesi arabi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, sono influenzati dalla componente sciita al governo in Iraq.
Dall’altro lato abbiamo il Bahrain, monarchia costituzionale che si poggia sulla famiglia sunnita Khalifa dal lontano 1783. Paese iniziatore dello sfruttamento petrolifero nel Golfo, ha perso la leadership del petrolio in confronto agli altri Paesi arabi come Qatar e Emirati Arabi Uniti. L’economia del paese, oggi, appare piuttosto diversificata e non strettamente, o meglio non unicamente, legata al settore petrolifero ed energetico. La composizione estremamente eterogenea della popolazione del Bharain è caratterizzata da una forte e preponderante presenza di lavoratori provenienti dal sud est asiatico, che spesso si trovano in condizioni molto difficili.
La popolazione, inoltre, è di maggioranza sciita, in contrasto con i regnanti di stampo sunnita. Questo, come comprensibile, è un generatore di contrasti interni, come quando nel 2002 le rivolte popolari hanno portato alla richiesta di destituzione del re e all’avvio di un processo di democratizzazione delle istituzioni interne. Il Bahrain, sta vivendo in balia delle rivolte ancora oggi, rivolte che hanno provocato decine di migliaia di morti. Le manifestazioni di piazza, uniche nel loro genere se si pensa agli altri paesi arabi del Golfo che sono rimasti per ora integri su questo piano, rischiano però di generare un effetto destabilizzatore nella regione.
Da ultimo, abbiamo l’Algeria. Paese africano, ex colonia francese che ha combattuto una guerra di indipendenza dal 1954 fino al 1962, anno in cui finalmente Algeri è stata ufficialmente svincolata da Parigi. La guerra di indipendenza, oltre ad aver causato quasi 300 mila morti, ha generato un duro lascito al paese. Da li, in Algeria, l’esercito costituitosi entro i ranghi del Fronte di Liberazione Nazionale, ha assunto un ruolo di primo piano all’interno di tutto l’apparato istituzionale. La profonda tensione generatasi in quegli anni, ha proseguito a pervadere il tessuto sociale anche negli anni a venire. Esempi ne sono gli scontri contro le componenti islamiche politiche e le forze armate. Da qui, il colpo di stato militare che ha fatto ripiombare l’Algeria in una nuova guerra civile conclusasi nel 1999. Oggi, il Paese vive in balia delle forti correnti dell’estremismo islamico, ospitando focolai dei principali vettori del terrorismo internazionale.
Il governo canadese, così come il Ministero degli Esteri, avrebbe assicurato che tutte le esportazioni di armi verso questi Paesi ‘indisciplinati’ sul fronte dei diritti umani, non contribuiscono assolutamente all’instabilità nazionale e regionale. Le esportazioni di armi seguirebbero una precisa politica di diversificazione degli investimenti nei mercati emergenti di riferimento. Mercati, però, a rischio umanitario.