martedì, 21 Marzo
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Armenia – Azerbaigian: Nagorno-Karabakh nuovo fronte della ‘guerra mondiale a pezzi’?

In virtù del Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza tra Armenia e Russia, il Consiglio di Sicurezza armeno ha deciso di rivolgersi e chiedere aiuto a Mosca in relazione all’aggravamento della situazione al confine con l’Azerbaigian. La nota informativa è del Consiglio dei ministri armeno, citato dall’agenzia russa ‘Tass‘.
La nota ‘ANSA‘ prosegue: «È stata presa la decisione di appellarsi formalmente alla Federazione Russa al fine di attuare le disposizioni del Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza. Ci sarà anche un appello all’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Otsc) e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in relazione all’aggressione contro il territorio sovrano dell’Armenia», ha annunciato il gabinetto armeno. «Nelle ore precedenti, in comunicati speculari resi noti dalle agenzie ‘Tass‘ e ‘Interfax‘, i Ministeri della Difesa di Yerevan e Baku si erano accusati l’un l’altro per l’escalation al confine, parlando di vittime e danni materiali a causa di bombardamenti. L’Otsc, citato da Yerevan, è una alleanza militare creata nel 1992 e di cui fanno parte Armenia, Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan».

Non è la prima volta che l’Armenia chiede aiuto alla Russia per far fronte alle sue controversie con l’ Azerbaigian e agli scontri al confine. Questa volta, però, appare e potrebbe essere diversa la situazione, e più ancora la richiesta di aiuto. La differenza sta nel momento in cui arriva e si rende nota la richiesta di aiuto: in uno dei momenti più critici e pericolosi della guerra in Ucraina.

In poco più di una settimana, le forze ucraine hanno ripreso dozzine di città occupate dai russi, in un’offensiva fulminea che ha scioccato l’Occidente così come Mosca. Secondo Kiev, circa 1.200 miglia quadrate di territorio occupato dalla Russia nell’offensiva sono stati ripresi. Tutto ciò grazie alle ultime e più sofistica armi in arrivo dagli Stati Uniti, che evidentemente hanno deciso di alzare il tiro.
La rapida avanzata delle forze ucraine ha messo in crisi il Cremlino, anche e soprattutto a causa dei nazionalisti russi che sono sempre più arrabbiati, hanno pubblicamente criticato la leadership militare e politica russa e la gestione della guerra, e stanno chiedendo a Vladimir Putin di rafforzare la presa sull’Ucraina, lanciare una mobilitazione su vasta scala, usare armi più potenti e prendere di mira anche i civili.
La mobilitazione nazionale è ciò a cui finora Putin ha resistito, affidandosi invece a combattenti a contratto e coscritti. «Un tale passo, oltre che politicamente rischioso in un momento di segni di crescente insoddisfazione per la condotta della guerra,porrebbe delle sfide alla situazione delle truppe dell’Ucraina», non solo alla tenuta di Putin, sostiene ‘Foreign Policy‘. Secondo alcuni osservatori e politologi, questo movimento di opposizione è «la sfida più significativa al Cremlino» da quando ha schiacciato il movimento di Navalny.

L’Armenia e l’Azerbaigian hanno entrambi riferito di nuovi scontri al confine che hanno causato la morte di un numero imprecisato di truppe azere (secondo alcune fonti sarebbero 49), e ciascuna parte ha incolpato l’altra per i combattimenti. Ci sono state frequenti segnalazioni di combattimenti lungo il confine tra Armenia e Azerbaigian dalla fine della loro guerra del 2020. All’origine lo scontro che ha portato alla guerra nel 2020, appunto, sulla regione contesa del Nagorno-Karabakh, l’enclave armena dell’Azerbaigian. Il cessate il fuoco concordato ieri non ha retto.
Sulla scena si muovono le principali potenze regionali, a partire da Iran e Turchia, oltre Russia e Stati Uniti. Questi ultimi, fino ad ora, si sono limitati ad esprimere «preoccupazione».

Il conflitto del Nagorno-Karabakh, risale a prima dell’epoca sovietica. Anche qui, come in Ucraina, il problema sono le etnie.
«Il conflitto scoppiò per la prima volta alla fine degli anni ’80, quando entrambe le parti erano sotto il dominio sovietico e le forze armene catturarono aree di territorio vicino al Nagorno-Karabakh, a lungo riconosciuto a livello internazionale come territorio dell’Azerbaigian, ma con una numerosa popolazione armena. Circa 30.000 persone sono morte nel conflitto che ne è seguito», ricostruisce ‘Foreign Policy‘.
«L’Azerbaigian ha riconquistato quei territori nei combattimenti del 2020, che si sono conclusi con una tregua mediata dalla Russia. Migliaia di residenti sono tornati nelle case da cui erano fuggiti. Più di 6.500 persone hanno perso la vita nella guerra di sei settimane».
La Russia è garante dell’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine a tale guerra del 2020 tra le due parti e ha quasi 2.000 forze di pace di stanza nel Nagorno-Karabakh, il territorio azerbaigiano che le forze armene hanno vinto nella prima guerra tra le due parti negli anni ’90. E la Russia mantiene anche una base militare a Gyumri, nell’Armenia nordoccidentale al confine turco, con diverse migliaia di soldati in più.
Dal 2020 i leader di entrambi i Paesi si sono incontrati più volte per elaborare un trattato inteso a stabilire una pace duratura. Durante i colloqui mediati dall’UE a Bruxelles in maggio e aprile, il Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev e il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan hanno concordato di “promuovere le discussioni” su un futuro trattato di pace». Da allora, nulla è accaduto, piuttosto incidenti e attacchi a bassa intensità si sono susseguiti, per quanto nelle ultime settimane, i leader di entrambi i Paesi avessero affermato che un accordo sarebbe potuto arrivare nel giro di pochi mesi. «Una delle cause principali degli scontri odierni tra Armenia e Azerbaigian non è solo la mancanza di un trattato di pace, ma anche qualsiasi progresso significativo su diversi binari come la delimitazione [del confine] e i collegamenti di trasporto», ha scritto Farid Shafiyev, capo dello Stato azerbaigiano.
Pashinyan in queste ore ha parlato a Vladimir Putin, al Presidente francese Emmanuel Macron e al Presidente dell’UE Charles Michel. L’Unione europea, attraverso Michel, si è detta pronta «a compiere sforzi per prevenire un’ulteriore escalation», aggiungendo che «non c’è alternativa alla pace e alla stabilità nella regione».

Secondo le dichiarazioni di queste ore dell’Azerbaigian, questi recenti attacchi potrebbero essere determinati dalla volontà dell’Armenia di usare le provocazioniper rallentare la finalizzazione dei progetti infrastrutturali realizzati dall’Azerbaigian nelle aree di confine e mantenere un’atmosfera tesa.
Il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, ha parlato con il Presidente iraniano Ibrahim Raisi, e secondo quanto riferito durante il colloquio si è parlato delle intenzioni dell’Azerbaigian per un nuovo collegamento di trasporto che collega l’enclave azerbaigiana di Nakhchivan con la terraferma azerbaigiana, una rotta che Baku chiama il ‘corridoio di Zangezur’. Quella rotta passerebbe lungo il confine dell’Armenia con l’Iran, con conseguenze incerte per il commercio Armenia-Iran. «Il Presidente dell’Iran ha ricordato le parole della guida suprema della rivoluzione islamica, l’ayatollah Khamenei, secondo cui il legame dell’Iran con l’Armenia non dovrebbe essere messo in pericolo e i canali di comunicazione dovrebbero essere sotto la sovranità degli Stati», ha riferito l’ufficio stampa di Pashinyan.
Il Ministro della Difesa dell’Azerbaigian, Zakir Hasanov, intanto, ha tenuto una telefonata con il suo omologo turco Hulusi Akar, il più stretto alleato dell’Azerbaigian. La Turchia e l’Azerbaigian avevano svolto esercitazioni militari congiunte in Azerbaigian nei giorni precedenti l’escalation.

Per capire perchè ci sia il rischio che il confronto Armenia-Azerbaigian non solo si trasformi in un ennesimo conflitto tra i due, ma anche diventi parte del ben più ampio scontro tra Stati Uniti e Russiache si combatte per ora in Ucraina -o della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ che sta diventando ‘totale’, come nello ‘spiegatore’ di Papa Francesco- bisogna fare un salto indietro nel tempo.

Lo status del Nagorno-Karabakh è stato contestato fin dai tempi del genocidio armeno, «quando i leader della Repubblica Democratica dell’Azerbaigian hanno collaborato con i loro mecenati ottomani all’annientamento della popolazione armena della regione, anche a Baku, Shushi e Nakhchivan», spiega una fonte di parte, Alex Galitsky, direttore delle comunicazioni dell’Armenian National Committee of America’s Western Region, la più grande organizzazione di difesa di base armeno americana negli Stati Uniti. «Quando i bolscevichi alla fine soggiogarono la regione nel 1921, ereditarono una polveriera.
Per garantire il sostegno armeno al dominio sovietico in mezzo a una feroce resistenza, al Nagorno-Karabakh fu concesso lo status di oblast autonomo: una divisione amministrativa designata per piccole nazioni all’interno della giurisdizione di una repubblica sovietica costituente. Tuttavia, nonostante le assicurazioni che la regione a maggioranza armena sarebbe stata posta sotto il controllo amministrativo armeno, l’Oblast’ Autonoma del Nagorno-Karabakh (NKAO) è stata consegnata alla Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian (SSR)».
Questa decisione, «progettata per conquistare il favore dell’allora Presidente turco Mustafa Kemal Ataturk e il sostegno del suo nascente Paese, mise in moto decenni di repressione politica, economica e culturale contro la popolazione armena del Nagorno-Karabakh», gettando le basi dei conflitti attuali.

Con le riforme della glasnost e della perestrojka di Gorbaciov, «un movimento popolare per l’autodeterminazione iniziò a prendere piede in modo significativo all’inizio del 1988, quando l’Assemblea nazionale dell’NKAO votò per la riunificazione con l’Armenia e un successivo referendum per la riunificazione approvato con schiacciante sostegno tra la comunità armena della regione, che all’epoca costituiva circa l’80% della popolazione della regione». Richieste tutte ignorate.
Così, a fine febbraio 1988 centinaia di migliaia di armeni si radunarono per una serie di manifestazioni senza precedenti che hanno scosso nel profondo l’Unione Sovietica. «Le autorità dell’Azerbaigian hanno risposto quasi immediatamente incitando a pogrom contro gli armeni in tutto l’Azerbaigian, anche a Sumgait (febbraio-marzo 1988), Kirovabad (novembre 1988) e Baku (gennaio-febbraio 1990), provocando la distruzione di case e attività commerciali, orribili abusi contro civili e centinaia di morti», prosegue Alex Galitsky.
«La maggior parte dei 400.000 armeni che vivevano in Azerbaigian sono stati sfollati con la forza o sono fuggiti, mentre coloro che sono rimasti sono diventati vittime di una spietata campagna di pulizia etnica nota come Operazione Ring. In risposta all’aggravarsi della violenza, le autorità dell’NKAO hanno condotto un secondo referendum il 10 dicembre 1991, in cui la maggioranza ha sostenuto l’autogoverno. Ciò ha innescato una guerra su vasta scala che si sarebbe conclusa con il Nagorno-Karabakh indipendente de facto a seguito di un cessate il fuoco mediato dalla Russia nel 1994».

Gli armeni hanno dovuto affrontare una dura repressione sotto il dominio azerbaigiano, e l’Azerbaigian che si è sempre opposto a qualsiasi misura ritenesse legittima l’indipendenza de facto del Nagorno-Karabakh. «Per l’Azerbaigian, la fissazione sull”integrità territoriale’ è stata centrale nella sua obiezione agli sforzi dell’OSCE per la determinazione dello status, poiché ha ripetutamente cercato di avanzare l’affermazione controfattuale che la popolazione armena indigena della regione stesse ‘occupando’ le proprie terre ancestrali. L’Azerbaigian fa regolarmente riferimento a quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che hanno assunto uno status quasi mitologico nel discorso dell’Azerbaigian sul conflitto.
Sebbene l’Azerbaigian abbia cercato di ottenere il maggior numero di chilometraggio possibile da queste risoluzioni, non è la pistola fumante che Baku vorrebbe far credere al mondo. Sebbene le risoluzioni chiedessero il ritiro delle forze etniche armene dalle regioni catturate nel conflitto, non hanno mai accusato l’Armenia di occupazione, né hanno contestato il diritto all’autodeterminazione degli armeni del Nagorno-Karabakh.
Inoltre, le disposizioni delle risoluzioni si applicavano tanto a Baku quanto alle forze di autodifesa armene locali, compresi i suoi inviti a tutte le parti a rispettare il diritto internazionale, cessare gli attacchi ai civili e garantire la fornitura di assistenza umanitaria alle popolazioni civili colpite. In quanto tale, l’assedio di Stepanakert da parte dell’Azerbaigian, così come la sua ampiamente documentata restrizione di acqua, elettricità, gas e aiuti umanitari alle popolazioni civili assediate sono state tutte chiare violazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite».

L’Azerbaigian e la Turchia hanno cercato di far approvare una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2008 per riaffermare il linguaggio di ‘occupazione’ e conservazione dell”integrità territoriale’ che è apparso nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Sebbene sia stato approvato con 39 voti (con 100 stati astenuti), gli sforzi dell’Azerbaigian sono stati ripudiati dai copresidenti del Gruppo OSCE di Minsk, Russia, Francia e Stati Uniti, che si sono tutti opposti alla risoluzione e hanno affermato in una dichiarazione di considerare la misura come “propaganda selettivamente solo alcuni di quei principi ad esclusione di altri, senza considerare la proposta dei copresidenti nella sua equilibrata interezza”».

Alex Galitsky richiama il principio di autodeterminazione sancito dal diritto internazionale per risolvere la difficile situazione in cui si trova oggi il Nagorno-Karabakh, che ha ripetutamente riaffermato il diritto all’autodeterminazione come precedente all’integrità territoriale nei casi in cui i diritti fondamentali siano stati violati. Ciò è stato dimostrato nella pratica migliore quando gli Stati Uniti hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo come “l’unica opzione praticabile per promuovere la stabilità” alla luce dell’assalto della Serbia al popolo kosovaro e della sua storia di pulizia etnica.

In questo quadro di accuse reciproche, da una parte maturano le condizioni che hanno portato al conflitto del 2020, dall’altra parte, Russia e Stati Uniti portavano avanti i propri interessi e pressioni sui rispettivi Paesi.
Dopo la guerra del 2008 della Georgia con la Russia, l’Azerbaigian era in predicato di entrare nella NATO, con l’Occidente che lo considerava ‘un bastione di stabilità’, e le cronache del tempo che annotavano che «tra gli altri ‘forti vantaggi’ ci sono i ‘forti legami culturali’ del Paese con la Turchia, membro della NATO, e la sua importanza strategica per i previsti gasdotti Nabucco e TGI (Turchia-Grecia-Italia), progetti che approfondiranno il sostegno occidentale per l’Azerbaigian nei prossimi anni».
In quanto all’importanza strategica dell’Azerbaigian sul fronte energetico, l’inglese Luke Coffey, direttore del Douglas and Sarah Allison Center for Foreign Policy presso la Heritage Foundation, e l’azero Efgan Nifti, direttore del Caspian Policy Center di Washington, nel 2018, sottolineavano: «Ci sono solo tre modi per l’energia e il commercio di fluire via terra tra l’Asia e l’Europa: attraverso l’Iran, attraverso la Russia e attraverso l’Azerbaigian. Con le relazioni a brandelli tra Occidente, Mosca e Teheran, ciò lascia solo una via praticabile per scambi commerciali per centinaia di miliardi di dollari: attraverso la piccola Nazione del Mar Caspio dell’Azerbaigian.
Quando si tiene conto dell’occupazione armena di quasi un quinto del territorio dell’Azerbaigian, tutto ciò che resta è uno stretto punto di strozzatura largo 60 miglia per il commercio. Chiamiamo questo punto di strozzatura commerciale il ‘Ganja Gap’, dal nome della seconda città più grande dell’Azerbaigian, Ganja, che si trova nel mezzo di questo stretto passaggio. E in questo momento, i russi hanno abbastanza influenza sul vicino rivale dell’Azerbaigian, l’Armenia, per riaccendere potenzialmente il sanguinoso conflitto del Nagorno-Karabakh della fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, dando loro una pericolosa opportunità di minacciare lo stesso» scontro.

I due studiosi annotavano, menzionando il Nord Stream 2 e la pericolosa dipendenza dell’Europa dal gas russo: «la Russia ha una lunga esperienza nell’uso dell’energia come strumento di aggressione, e ogni barile di petrolio e metro cubo di gas che l’Europa può acquistare dall’Azerbaigian, dal Kazakistan o dal Turkmenistan è uno in meno da cui deve dipendere dalla Russia.
Attualmente, ci sono tre principali oleodotti e gasdotti nella regione, che aggirano la Russia e l’Iran e attraversano il Ganja Gap largo 60 miglia: il gasdotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, che va dall’Azerbaigian attraverso la Georgia e la Turchia e poi verso il mondo esterno attraverso il Mediterraneo; l’oleodotto Baku-Supsa, che trasporta il petrolio dal Mar Caspio al Mar Nero e poi al mondo esterno; e il gasdotto del Caucaso meridionale, che va dall’Azerbaigian alla Turchia, e che presto si collegherà al proposto corridoio meridionale del gas per fornire gas all’Italia e poi al resto d’Europa».
Non bastasse: «Non sono solo gli oleodotti e i gasdotti che collegano l’Europa con il cuore dell’Asia. Anche i cavi in fibra ottica che collegano l’Europa occidentale con la regione del Caspio passano attraverso il Ganja Gap. La seconda autostrada europea più lunga, la E60, che collega Brest, in Francia, sulla costa atlantica con Irkeshtam, in Kirghizistan, al confine con la Cina, attraversa la città di Ganja, così come il collegamento ferroviario est-ovest nel Caucaso meridionale, la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars. Questi sono destinati a diventare connessioni potenzialmente vitali».

Evidente, aggiungono i due studiosi, che «la Russia farà tutto il possibile per rendere difficile all’Occidente l’utilizzo del Ganja Gap. Uno dei modi in cui la Russia esercita influenza nel Caucaso meridionale attraverso i vari cosiddetti conflitti congelati, specialmente nella regione del Nagorno-Karabakh».

Nel pieno di una guerra bifronte (militare ed economica/energetica) e diffusa come l’attuale tra Stati Uniti-Occidente e Russia, e anche considerando l’elemento etnico, pure qui presente come sul fronte ucraino e anche più, che è alla base della campagna di sfida di Putin agli Stati-Nazione in favore dei ‘mondi di civiltà’ o ‘mondi etnici’, tenendo in considerazione la storia (di oltre un secolo) e le influenze delle due potenze in lotta -oltre a quelle dei loro alleati (Iran e Turchia in prima linea)-, è difficile ritenere che quanto potrebbe accadere in Armenia-Azerbaigian possa essere un fatto che si manterrà estraneo, indipendente.
La ‘guerra mondiale a pezzi’ che sta diventando ‘totale’.

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