In Afghanistan, la ripresa del potere da parte dei talebani è ormai conclamata: nel ventennale dell’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre, si insedierà il nuovo governo, ma la svolta in nome della ‘sharia’ è già realtà: proprio in queste ore è stato vietato alle donne di praticare sport perché “espone i loro corpi” e due giornalisti sono stati picchiati dopo aver documentato le proteste a Kabul.
Ciò nonostante, fin dalle prime conferenze stampa in diretta tv, gli studenti coranici hanno provato a dare un’immagine moderata di sé, diversa da quella da loro mostrata negli anni del primo governo. Una popolazione più giovane (circa la metà dei 35 milioni di afghani non era ancora nata nel 2000), l’espansione – sebbene ancora problematica – della connessione internet, la diffusione di nuovi strumenti tecnologici come gli smartphone, l’apertura di nuovi canali di comunicazione come i social network: è in questo contesto che il nuovo Emirato Islamico risorge e dal quale non può prescindere.
Da questo punto di vista, è innegabile che gli smartphone siano stati per la ripresa di Kabul fondamentali tanto quanto i kalashnikov: non a caso, quando sono entrati nel Palazzo presidenziale, i video li ritraevano muniti di telefonini intenti filmati di propaganda della loro occupazione.
Sebbene fosse impensabile per i talebani di vent’anni fa avere questa dimestichezza con i mezzi di comunicazione, è fuorviante parlare di ‘talebani 2.0’ dato che della guerra d’informazione da loro combattuta in questi venti anni, sono cambiati solo i mezzi, ma non gli obiettivi. Nel corso del ventennio, si possono distinguere tre periodi: dal 2001/2002 fino al 2009, la fase di maggiore chiusura, ma anche di primo approccio digitale; dal 2009/2010 fino al 2017, la fase di inserimento massiccio nei moderni canali di comunicazione, i social media; dal 2017 ad oggi, la fase in cui la comunicazione online dei talebani è divenuta massiccia e grazie a questa, rinasce l’Emirato Islamico.
I talebani si affacciano all’indomani del ritiro sovietico e, nel 1996, i talebani assumono il controllo su una quantità sufficiente del Paese, tranne il Panjshir, per dichiarare la creazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, dove vige la ‘Sharia’ e dove le donne e le minoranze sono prese di mira e perseguitate. Pur vietando tutto quello che riguarda foto, internet e tu, gli studenti coranici non disdegnano un primo embrionale avvicinamento a questi mezzi, al punto da lanciare il loro primo sito web primitivo (www.taliban.com) nel 1998.
Se, inizialmente, l’integralismo islamico dei talebani aveva poco in comune con il jihadismo internazionalista, antioccidentale e panislamico di al-Qaeda, tutto cambia dopo che gli studenti coranici decidono di offrire protezione a questo gruppo terroristico e, soprattutto, dopo gli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e la successiva invasione americana dell’Afghanistan nel 2001.
I talebani sconfitti, in esilio in Pakistan e in altri Paesi del Medio Oriente, capiscono la necessità di spostare, fondando una commissione apposita, il terreno di scontro a livello di informazione e, in particolare, di narrazione mirante a delegittimare il governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti e, al contempo, ad ergersi ad unica alternativa credibile. A questo fine, i taliban sospendono il divieto su foto e video, facili da diffondere soprattutto nelle aree rurali, allegate ad audiocassette o alle cosiddette ‘shabnamah’ (‘lettere notturne’), consegnate di nascosto e di notte porta a porta o affisse alle principali moschee.
L’esempio di al Qaeda che, in questi anni, decapita le sue vittime e poi diffonde i video su DVD influenza i talebani, riportandoli alle fucilazioni. Nel frattempo, nel 2005, viene messo online il primo sito web ufficiale dell’insurrezione talebana, Al Emarah (l’Emirato), pubblicato in cinque lingue: inglese, arabo, pashtu, dari e urdu. Attraverso questo sito ‘madre’ ed altri siti ‘figli’, inizialmente si diffondo brevi comunicati stampa che rivendicano vittorie sulla Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (ISAF) guidata dalla NATO.
Il rapporto con i media non migliora, anche se, nel frattempo, migliorano le capacità di narrazione. Si afferma, nel 2008, uno degli attuali portavoce su del gruppo, Zabihullah Mujahid, che attualmente si occupa della comunicazione su Twitter.
Nel 2009, i talebani esordiscono sulla rete, sui social media, iniziando da YouTube per diffondere i propri video. Seguono, poco dopo, Facebook e, nel 2011, Twitter, sul quale iniziano a condividere e a vantarsi dei propri successi militari. Nel 2013, inizia l’esperienza dell’ISIS che i talebani, da rivali, guardano da lontano, ma con attenzione. Nel 2015, i talebani annunciano il lancio dei canali Telegram e WhatsApp, una svolta anche per le comunicazioni interne.
Come dimostrano gli attacchi alla città di Kunduz nel corso del 2015 e del 2016 (allorché gli studenti coranici provano a fondare un’app), i taliban dispongono di molti smartphone attraverso i quali possono filmare e postare video che sembrano ritrarre vittorie sul terreno, che però non ci sono. La qualità dei filmati aiuta così come aiuta il fatto che i social network come Facebook, YouTube e Twitter cancellano raramente i contenuti talebani, almeno fino alla tagliola imposta dopo il 2014 per contrastare l’ascesa dell’ISIS.
Nel 2017, il governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti preferisce oscurare i dati relativi alla forza, alle prestazioni e al logoramento delle forze afgane, nonché alle vittime civili e militari statunitensi e afgane stimate, arrivando addirittura ad ordinare la chiusura per venti giorni di WhatsApp e Telegram all’interno del Paese, adducendo “motivi di sicurezza” non specificati. Una mossa che si trasforma in un boomerang per il governo di Kabul, mettendone in risalto la corruzione e l’assenza di trasparenza. Nel 2018, i talebani ne approfittano, provando a riempire questo vuoto informativo. Non a caso iniziano i sabotaggi alle antenne e alle torri telefoniche: circa il 40% delle famiglie afgane aveva accesso a Internet, il 90% a un dispositivo mobile, i social media sono parte della vita quotidiana.
Ecco che nel 2019 i tweet – con video, grafici – divengono compulsivi e vengono poi ripresi da account falsi, i ‘bot’, che fanno da megafono. Intanto, i toni si fanno più moderati, come dimostra il comunicato stampa in lingua inglese a seguito dell’attacco terroristico anti-musulmano del 2019 a Christchurch, in Nuova Zelanda, in cui i talebani hanno chiesto indagini, non la jihad richiesta dall’ISIS.
Gli accordi di Doha aumentano il credito internazionale dei talebani soprattutto rispetto al governo di Kabul, ormai incapace di far fronte alla guerra d’informazione e, di conseguenza, cade in pochi giorni questa estate: «La purificazione della città continua veloce. I mujaheddin sono impegnati a fortificare la città, e l’avanzata procede», scrivono il 15 agosto mentre sono alle porte della capitale. La rete, soprattutto con la crescente diffusione di hashtag di protesta quale #DonotChangeNationalFlag, sarà osservata speciale: questo spiega perché i talebani hanno incontrato la dirigenza di ATRA (Afghanistan Telecommunications Regolatory Authority), la più alta autorità governativa in materia di comunicazioni, e hanno distrutto diversi ripetitori.
Questa, a grandi linee, la storia della comunicazione talebana, ma quali gli obiettivi? Quali le principali caratteristiche dei cambiamenti attuali? Lo abbiamo chiesto a Giampiero Gamaleri, giornalista, ex consigliere di amministrazione della RAI, della Triennale di Milano e del Centro Televisivo Vaticano, già Professore ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università degli Studi di Roma Tre, attualmente insegna Linguaggi dei nuovi media al corso magistrale di Psicologia dell’Università Telematica Internazionale Uninettuno di Roma ed è Visiting Professor alla Pontificia Università della Santa Croce.
Come definirebbe la comunicazione dei talebani ritornati al potere in Afghanistan? Si può parlare di comunicazione ‘istituzionale’?
I talebani si sforzano di fare una comunicazione ‘istituzionale’, andando anche al banco del governo, ma vi sono degli elementi insopprimibili: a parte le loro barbe – che tutti noi rispettiamo, ma che hanno un significato specifico – sono conferenze fatte con il mitra al collo e questo è piuttosto singolare perché, anche se non da parte del Primo Ministro incaricato o deiMinistri, lo sfondo è comunque di guerriglieri armati. E da questo traspare un significato molto evidente, un regime senza alternative. McLuhan diceva argutamente che spesso lo sfondo conta più delle figure in primo piano: E questo è proprio uno di quei casi
È evidente, però, che i talebani abbiano fatto evolvere la loro comunicazione rispetto a 25 anni fa, quando le infrastrutture erano precarie, la diffusione dell’elettricità e di internet era scarsa e solo 1 afghano su 4 aveva la tv: ciò rendeva più facile per gli ‘studenti coranici’ imporre un ritorno al ‘Medioevo’. Oggi, pur rimanendo difficile, la situazione è diversa: buona parte degli afghani ha accesso, anche se con frequenti blackout, all’elettricità, e quindi alla TV, così come ad internet attraverso uno smartphone. Era dunque impensabile che i talebani potessero non considerare questi cambiamenti e tornare, all’istante, indietro di un trentennio?
Certo, infatti direi piuttosto che tentano una comunicazione ‘moderata’ nel senso che si adeguano a dei modi diversi dovuti ai nuovi canali che un ventennio fa non c’erano. Allora era più facile alimentare il “mito della montagna”, cioè quello delle grotte in cui vivevano ed operavano gli eremiti del Corano.
Non si può tralasciare il fatto che è cambiato il ‘target’: oggi quasi la metà degli attuali 35 milioni di afghani non era ancora nata all’epoca dell’11 Settembre, ciò vuol dire che circa il 50% della popolazione è nativa digitale. Un elemento che i talebani hanno dovuto necessariamente considerare nel rimodulare la loro comunicazione per raggiungere anche questa importante fetta popolare?
Certo. In questo senso potremmo coniare lo slogan‘internet e kalashnikov’.
Quindi, è come se il ventennio di esilio, le novità nei canali di comunicazione e nella popolazione afghana, l’esperienza di altri gruppi terroristici come l’ISIS abbiano costretto i talebani a cambiare se stessi, dovendo prendere atto dei cambiamenti intervenuti.
Sì, ma teniamo conto che i principali componenti del governo sono tutti quelli della vecchia guardia. Ciò vuol dire che è rimasta una costante generazionale tra il primo e il secondo governo talebano, ma anche che, mentre la popolazione è giovane, il governo è ‘vecchio’. Si tratta di vedere quanto tutto questo è di facciata e quanto, invece, vuol seguire una profonda la trasformazione. Per questo occorre non fermarsi ale immagini stereotipe e servono degli atti.
Per esempio, Lei ha prima fatto riferimento alle ‘barbe’ che i talebani continuano ad esibire come venti anni fa, sebbene con espressioni del volto meno imbronciate e, talvolta, anche con qualche sorriso. Può dire di aver notato variazioni nell’estetica dei vertici del nuovo Emirato Islamico?
Non quanto basta per parlare di un cambiamento più profondo anche perché c’è un elemento che rende la situazione rigida – quindi paragonabile a quella del primo governo, seppur con modalità diverse – ed è la costante religiosa, vale a dire che i convincimenti e le pratiche religiose sono rimasti immutati, almeno nella classe dirigente e, grazie alle scuole coraniche, anche nelle nuove generazioni. Il maggior fallimento dell’Occidente è stato quello di non essere riuscito non tanto a portare la democrazia, quanto piuttosto a portare una formazione dei giovani: le forme istituzionali possono cambiare mentre la formazione delle persone è una colonna portante di una società che, nel bene e nel male, rimane ed ha un’incidenza profonda. L’Afganistan è la riprova che ci stiamo inoltrando nella “società della conoscenza” e solo incidendo sulle formazione delle menti si può incidere anche sulla “coscienza”. Quello che sorprende è che l’esportazione della democrazia può essere perfino un atto violento di imposizione mentre la formazione – bisogna sempre considerare quale – è un elemento, invece, germinale, che nasce dal basso ed alimenta nuove generazioni, diventando irreversibile. Qui sta la scommessa: se c’è stata una disseminazione formativa secondo criteri diversi rispettosi della dignità della persona, allora ci si può aspettare una forma di protesta e di reazione nei confronti di un governo che, attraverso la ‘vecchia guardia’, intende ripristinare gli stereotipi di prima. Insomma non ci sono solo due parole, terrorismo e democrazia. Ce n’è una terza decisiva che è: educazione. Se la democrazia non si può esportare, l’educazione al rispetto reciproco è una dimensione da proporre ovunque. Dovrebbe essere la “cifra” della nostra civiltà, di tutte le civilà.
A proposito della ‘costante religiosa’, in molti hanno fatto notare il processo di ‘rebranding’ che, a livello ufficiale, porta a non utilizzare più il termine ‘Talebani’, ma ‘Emirato Islamico dell’Afghanistan’ quando si intende riferirsi al potere che decide. Dal punto di vista comunicativo, vuol dire che i talebani vogliono dare più risalto ‘istituzionale’ all’unità dello Stato piuttosto che all’appartenenza al gruppo?
Certo. Il ‘talebanesimo’ è sempre stato nazionalistico mentre l’ISIS è sempre stata internazionalista. E’ una distinzione chiaramente espressa su Repubblica anche da Maurizio Molinari, che conosce questi mondi dal di dentro. Questo crea evidentemente un contrasto di non indifferente portata come dimostra il gravissimo attentato fatto pochi giorni fa all’aeroporto di Kabul con la morte dei 13 marines americani e di decine e decine d civili. Questo attentato non è stato altro che il tentativo di imporre la visione sovranazionale ed imperialistico-islamista dell’ISIS rispetto al tentativo che i talebani stanno facendo di restaurare il potere a livello nazionale, in Afghanistan.
È con questa stessa chiave di lettura ‘nazionalistica’ che, allora, si spiega anche l’esibizione della bandiera della Shahadah, con un significato ben diverso rispetto a quella nera sventolata e issata dall’ISIS?
Penso che questa sia la giusta interpretazione. Il gioco delle bandiere riflette la stessa dialettica. Quello che, in ogni caso, colpisce è che – persino nelle poche donne che, con coraggio, si oppongono con manifestazioni – c’è un dato comune tra i talebani e i loro oppositori: la religione islamica. Credo che il minimo comun denominatore sia la rivendicazione di un’originalità e di una partecipazione ad un’esperienza religiosa che è quella coranica. E questo malgrado le differenze interne crea una posizione comune, insieme ad una diffidenza nei confronti dell’Occidente.
Parlando di comunicazione, non si può prescindere dalla ‘narrazione’. I talebani si sono presentati come i ‘buoni’, come i ‘liberatori’ degli afghani, ed anche nelle prime conferenze stampa, hanno voluto dare l’impressione di ‘moderazione’, parlando di “amnistia nei confronti di chi ha collaborato con l’Occidente” è di “tutela dei diritti delle donne” sebbene “nella cornice della Sharia”. Ebbene, si tratta di una narrazione efficace e convincente?
Secondo me, fa parte di una maturazione dell’Islam, vale a dire, in fondo, con tutti gli scontri che ha avuto a livello planetario con il mondo occidentale, ha dimostrato una capacità di tenuta importante. Allora se l’Islam tiene, si può anche abbassare un po’ il kalashnikov e provare a diffonderlo attraverso la partecipazione all’esperienza religiosa Islamica. Da questo punto di vista, l’Islam tiene tanto quanto il Cristianesimo in senso lato, invece, tende invece ad affievolirsi. L’esperienza della pandemia e i suoi esiti ci indicano che la normalità verso cui ci speriamo di avviarci è sempre più dissacrata, laica, non radicata in un convincimento profondo capace di essere competitivo e di confronto con un altro convincimento profondo come l’Islam. Voglio dire: cosa si contrappone da parte dell’Occidente in termini di radicamento di pensiero, non per diventare fanatici integralisti, ma per avere un basamento forte? L’Islam è una religione fortemente identitaria, ma ha anche un proselitismo fortissimo assolutamente insostenibile da un soggetto occidentale. C’è da aggiungere che da noi quelle frange di pensiero forte finiscono per confluire nei nazionalismi e nei sovranismi, peggiorando ulteriormente la situazione e precludendo le strade del confronto interreligioso e di civiltà.
Tuttavia, alla comunicazione ‘moderata’, devono corrispondere fatti coerentemente ‘moderati. Eppure si iniziano a vedere le prime azioni talebane contro i diritti delle donne, dei giornalisti.
I talebani hanno come programma quello di praticare la ‘sharia’, praticando il potente flusso dell’ispirazione religiosa ‘integrale’. Non a caso hanno proclamato anche una guida suprema spirituale, come in Iran.
Venendo ai canali comunicativi utilizzati, non mancano i giornali. Sono già diverse le interviste che il portavoce talebano ha rilasciato ai grandi giornali internazionali, ma già negli ultimi anni era apparso qualche editoriale. Se 25 anni fa i talebani definivano i giornali ‘menzogneri’, oggi cosa è cambiato? È funzionale ad una comunicazione ‘istituzionale’ tollerarli per accreditarsi a livello globale?
Certamente, ma si potrebbe dire che i talebani ‘sono scesi dalle montagne’ nel senso che in questi vent’anni si sono evidentemente affinati. Ma ciò indica anche che l’Islam si è rafforzato perché quanto più una convinzione, una religione è forte, tanto più non teme di conquistare posizioni con il dialogo, con il confronto. Ribaltando il discorso, io vedo inverarsi, ogni giorno di più, un titolo – significativo, ma anche allarmante – del sociologo americano Neil Postman, ‘Divertirsi da morire’: vale a dire che l’Occidente, una volta creata la bandiera della democrazia formale (che poi scricchiola da mille parti), nella sostanza esprime una concezione per cui il soggetto ha come obiettivo quello di divertirsi ‘da morire’, fino al rischio massimo possibile della morte. La parola divertirsi è voce del verbo‘divergere’ che vuol dire ‘allontanarsi’ dalla propria soggettività, andar sempre fuori senza mai riflettere al di dentro. Se questo è l’Occidente, i talebani lo hanno capito molto bene e ‘affondano la lama nel burro’. Non opponiamo la resistenza di convincimenti ben radicati, siamo quasi sempre proiettati verso l’effimero. Quindi, più che politico, il problema è culturale. E rivolgersi ad un giornale, oltre ad accreditarsi a livello internazionale, consente ai talebani di confermarsi nelle loro posizioni senza trovare un contraddittorio, una discussione vera, una contestazione fondata.
All’indomani della presa di Kabul, la giornalista Yalda Hakim, mentre era in diretta alla BBC, ha ricevuto una telefonata da parte di Shake Shaheen, il portavoce ufficiale dei talebani con i media internazionali. Anche le prime conferenze stampa dei talebani di nuovo al potere sono state tutte trasmesse in diretta TV. Eppure, in passato, il piccolo schermo era stato abolito nel primo Emirato e, quando necessario, gli studenti coranici inviavano alle redazioni dei più importanti network i video di propaganda registrati in VHS. Diversi osservatori fanno notare che la televisione risponde alla necessità istituzionale di accreditarsi a livello internazionale, ma anche per essere rassicuranti a livello nazionale. Condivide?
Certamente, sono entrati nell’età adulta della comunicazione. Anche qui, si sono confrontati sul messaggio e si confrontano sul mezzo: non temendo il messaggio, e così non non temono neppure il mezzo. Naturalmente, poi diventa una battaglia interna al mondo islamico per vedere se questo ‘ammorbidimento’ significa anche una maggiore capacità di dialogo all’interno dell’Islam oppure se solo una tattica.
Abbiamo finora parlato di giornali e tv, media che, in genere, richiedono il ‘confronto’, l’intermediazione, non richiesta sui social. È innegabile, però, che anche i social network hanno avuto negli ultimi anni, ma anche nelle ultime settimane, un ruolo cruciale, anche per i talebani. Numerosi sono stati i tweet che mostravano i successi militari, scoraggiando le eventuali resistenze, così come emblematici sono state i filmati che ritraevano i talebani mentre entravanonel palazzo presidenziale afghaoi armati non solo di fucili, ma anche di smartphone, intenti a riprendersi oppure a fotografarsi. C’è chi pensa che, anche grazie ai social, la caduta di Kabul e la ripresa del potere da parte talebana è stata più veloce. Lei che ne pensa?
In effetti i social c’erano da entrambe le parti, talebana e filo-occidentale. Quindi, alla fine, si annullano l’una con l’altra e credo che l’istanza più importante che ha fatto cadere Kabul sia stata quella nazionalistico-religiosa. I social, da questo punto di vista, sono un veicolo, ma quello talebano non era l’unico messaggio che circolava, ce n’era anche un altro, opposto, che però ha avuto la peggio. Ancora una volta c’è stato il prevalere di un “pensiero forte” che da una parte ha convinto, dall’altra ha intimorito, facendo sciogliere come neve al sole iilgoverno-fantoccio creato dagli americani. Lo ha ammesso anche Biden nel suo discorso in cui ha detto che il presidente “è scappato”. I social hanno riflesso questo confronto impari.
Va detto che, nelle ultime settimane, Facebook, Instagram e Whatsapp hanno adottato delle misure contro i talebani, mentre Twitter e YouTube si attardano, forti anche del fatto che gli studenti coranici non figurano nella lista dei movimenti terroristi internazionali. L’utilizzo di questi canali serve ad entrare in contatto con la popolazione più giovane, rassicurando, ma anche incutendo timore?
L’utilizzo dei social è stato sicuramente importante per ribadire l’identità Islamica del popolo afghano. Un elemento esplicito, che ha percorso anche i social, e ha fatto sì che si stabilisse un’equazione per cui l’elemento islamico-nazionalista ha trovato come interpreti i talebani. Twitter ha come caratteristiche quella della brevità, della concisione, dello slogan. Quindi, con un pubblico soprattutto giovane giocano un ruolo imporrante. Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare:non c’è niente di più conciso e perentorio degli ordini militari. Sarebbe interessante studiare quali tipo di ordini, passati attraverso i pochi caratteri di Twitter, abbaino contribuito a favorire la ripresa del potere da parte dei talebani.
Peraltro, su Twitter i talebani, come avviene in Occidente, si avvalgono anche di bot, cioè profili verosimili che fanno da megafono alla loro ‘propaganda’.
Certo e questa ‘propaganda’ è passata attraverso i social, trovando uno spazio non indifferente. YouTuberappresenta, a sua volta, rinforza l’immagine guerrigliera dei talebani. Come era capitato con l’ISIS: la rappresentazione di scene esemplari, spesso di intollerabile crudeltà. Ma anche qui i talebani hanno dimostrato meno estremimo, minore diffusione del “terrore”. Riprendendo una frase che McLuhan aveva utilizzato nei confronti delle Brigate Rosse. Egli evidenziava un duplice effetto. Si può dire che, tramite queste forme di ‘propaganda’, i ‘combattenti’ talebani, da una parte, rafforzano l’immagine della loro ‘armata’ e, di conseguenza, ampliano le fasce di solidarietà e proselitismo che si sono create nei loro confronti nel Paesi; dall’altra, disincentivano l’opposizione con la paura.
È soprattutto attraverso i social che i talebani troveranno nuovi seguaci, nuove reclute?
Sì, è anche un fatto generazionale. Un ruolo importante avranno le donne: cadranno in questa dinamica? In questa trappola? Alcuni segnali indicano una loro insperata resistenza, acuida dall’assultdità di decisioni come quella di escluderle assolutamente da ruoli di governo. Sotto questo aspetto i media occidentali avranno lo stesso ruolo che ha avuto la RAI per il mondo albanese negli anni ’80 nel dopo Hoxha: far vedere la differenza senza la pretesa di voler dimostrare o esportare qualcosa: sarà la forza dei fatti a marcare l’intollerabile differenza.
Cosa ci dice il fatto che i talebani abbiano affidato la comunicazione a tre soggetti diversi: Shak Shaheen, portavoce che cura i rapporti con i media internazionali tradizionali (giornali e tv), ZabihullahMujahid, portavoce che si occupa di Twitter, e, infine, Dr. M. Naeem, portavoce dell’ufficio politico a Doha? Si vogliono distinguere i target?
Esattamente, è la classica distinzione dei target. È una soluzione rudimentale, ma evidentemente ampiamentecollaudata..
L’ISIS è stato il primo gruppo terroristico ad usare con abilità i social network. Cosa hanno imparato i talebani da quella esperienza?
Hanno imparato che una misura eccessiva di crudeltà non paga e, quindi, ho l’impressione che cerchino di isolare le violenze estreme così come hanno condannato l’attentato all’aeroporto che aveva come obiettivo quello, da un lato, di mettere in dubbio la loro autorevolezza all’interno e, dall’altro, suscitare la reazione internazionale. Credo che una delle lotte più sottili e, al contempo, più esplicite e durature sarà quella tra talebani e ISIS, l’una nazionalista, l’altra internazionalista. Maurizio Molinari, su la Repubblica del 29 agosto ha proposto una diagnosi estremamente accurata e interessante, specie sul ruolo di paesi come il Qatar intesi a esercitare un’influenza sugli schieramenti jiadisti.
Dovendosi confrontare con nuovi canali di comunicazione, direbbe che i talebani stanno facendo tutto da soli oppure si stanno rivolgendo ad altri Paesi e/o a soggetti privati specializzati?
Io penso che stiano facendo molto da soli, però non escludo che, siccome i vent’anni sono passati, e qualche giovane talebano di allora, ora invecchiato, potrebbe aver frequentato ambienti occidentali e, avendo conosciuto dall’interno le nostre logiche, si comportano in modo più consapevole. Mi sembrerebbe strano se non ne tenessero conto.
Nonostante i passi in avanti dettati dalle vecchie e nuove tecnologie, i talebani non abbandonano la comunicazione più tradizionale, quella con le cosiddette ‘night letters’ o ‘shabnahah’, lettere scritte consegnate porta a porta o affisse di notte nelle moschee. Un modo per continuare a comunicare con le persone, soprattutto delle aree rurali, più adulte e meno tecnologicamente ferrate?
Certamente, come la mafia che mantiene i ‘pizzini’, un canale elementare, ma insopprimibile e molto efficace. Inoltre, questi ‘pizzini’ hanno un carattere personalizzato, passano di mano in mano, sono più diretti, sono un passa-parola scritto.
In conclusione, l’ha colpita la foto che ritrae i talebani, nelle stanze del potere, non più con il dito sul grilletto, ma con il dito parallelo alla canna e perpendicolare al cestello, un evidente scimmiottamento della modalità occidentale? Cosa ci dice, dal punto di vista della comunicazione, questa raffinata trovata?
In vent’anni, almeno l’evoluzione della posizione del dito bisognerà anche concederla. Al di là delle battute, l’immagine della presa del palazzo presidenziale presenta molte analogie con l’irruzione a Capitol Hill. Riesce un po’ difficile che gli Stati Uniti possano insegnare la democrazia alle società orientali con immagini di quel genere. La cosa impressionante è che quanto avvenuto al Congresso americano ha dato l’idea della possibile regressione fulminea rispetto alle istituzioni democratiche. E questo fa molto pensare se si riflette che è stato un episodio addirittura stimolato dal capo della principale democrazia occidentale. C’è quindi bisogno di una grande iniezione di etica, di cultura e di educazione sono le uniche garanzie di non regressione delle diverse società verso situazioni di tribalismo primitivo.